In un processo piuttosto spontaneo e a tratti rivoluzionario, con il Fuorisalone il sistema dell’arredo è uscito dagli ambiti più ingessati dei padiglioni fieristici alla ricerca di spazi espositivi e modelli di exhibit design completamente nuovi. A distanza di vent’anni, la pandemia ha creato un nuovo inimmaginabile scenario che obbliga a progettare un cambiamento. I linguaggi e i codici utilizzati nella comunicazione si stanno evolvendo rapidamente per poter continuare a comunicare il design in una nuova normalità post Covid.
Delle prime design week milanesi degli anni Novanta si ricordano le apparizioni ironiche di Philippe Starck, le entrée Pop di Karim Rashid, le sperimentazioni speculative degli olandesi, gli interventi minimi dell’allora giovane gotha dell’attuale design italiano. E la sensazione di assistere a una rivoluzione in grado di destrutturare e ricostruire da zero un linguaggio di nicchia, per aprirsi a una relazione immediata con un nuovo pubblico, forse anche come reazione a un’esigenza fisiologica: erano infatti gli anni in cui si cominciava a parlare di design come di una disciplina scientifica che sa rispondere in modo culturalmente avanzato ai temi post-industriali.
La design week quest’anno non c’è stata. E i tentativi, ancora incerti, di riprodurla virtualmente sono ancora in fase di valutazione. Ma forse questa è l’occasione per inventare nuovi modi per parlare di design, tentare di definire un modello di comunicazione che ibrida spazi digitali e fisici. E soprattutto mette a fuoco cosa davvero vogliamo comunicare.
Il rito della design week com’era e come potrebbe diventare
Tra nostalgia e futuro, abbiamo cercato di capire dove andrà l'evento degli eventi di Milano, partendo dai primi esperimenti degli anni Novanta per arrivare ai tentativi “virtuali” per far fronte alla cancellazione dell'edizione 2020. Cosa succederà?
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- Elisa Massoni
- 11 maggio 2020
Fra rito collettivo e parco tematico, il senso è la permeabilità
Con un po’ di spregiudicatezza, il sistema design week fino ad oggi si può definire come una diffusa ed enorme Disneyworld, un parco il cui tema cardine è diventato aleatorio, sfuggente. “Non credo che la vaghezza degli argomenti sia il problema reale” esordisce Elio Carmi, co-fondatore dello studio di brand strategy Carmi e Ubertis. “È meglio guardare all’evento come a un contenitore di molteplicità, entusiasticamente dedito a mostrare le diverse espressioni della qualità”. Secondo Carmi, la parte interessante del messaggio è stata quella aspecifica – così tipicamente italiana e possibilista – che al di là di mettere in scena il made in Italy apre al dialogo con il resto del mondo. “Il senso è la permeabilità sul tema dell’eccellenza, che rende evidente come esistano decine di diverse culture progettuali, sia in Italia sia fuori”. Questo lo ho fatto fa attraverso progetti che, oltre a essere rappresentati in modo il più possibile efficace per la viralizzazione, mostrano una generica tensione alla qualità, all’innovazione. L’effetto è stato di far ridondare i grandi marchi – come fashion e automotive – e creare audience per quelli piccoli o esordienti. Un circolo virtuoso in cui la riconoscibilità dei primi e la ricerca all’avanguardia dei secondi dialogano, dandosi reciprocamente nuovi significati e contenuti.
L’espressione di una qualità corale
La design week è stata volutamente un evento popolare, durante il quale inevitabilmente la diffusione di messaggi sostanziali era rarefatta, ma in sé ha una forza comunicativa unica. Un po’ come se il claim fosse: in centinaia di migliaia celebriamo, insieme, una tensione umana al bello. Questa lettura suggerisce un processo partecipativo simile a quello della festa popolare. “Si parla di microtargeting e atomizzazione dei messaggi”, dice Giuseppe Mazza, fondatore dell’agenzia di pubblicità Tita e docente all’Università IULM e alla Scuola Holden di Milano. “Anche se poi però assistiamo stupefatti al successo di Sanremo, che diventa l’occasione per celebrare il rito del racconto collettivo intorno al fuoco”. Si tratta di un bisogno primitivo, che risponde a esigenze umane intuibili. “La pandemia e il lockdown hanno sottolineato un problema che esisteva già prima, ed è un problema di alfabetizzazione”, continua Mazza. “Siamo stati ancora una volta fruitori di una comunicazione eccessiva, casuale, spesso frutto di tentativi e non di progetto. Ed è una comunicazione che ferisce”. Esiste, secondo Mazza, una possibilità italiana di veicolare una bellezza sociale, in una definizione in cui bellezza significa “dare dignità al bisogno di un messaggio che esprime un’identità precisa, definita, consapevole. E la design week è un esempio di un’identità culturale definita, al contempo popolare e di qualità”.
Tornare a quello che si può toccare
Comunicare è un lavoro ambiguo e sul suo esercizio esiste un dibattito che spesso si lega all’etica e alla morale. Sia nelle parole di Mazza che di Giulia Capodieci, direttrice della comunicazione del progetto culturale Base Milano, echeggia una riflessione sulla responsabilità di progettare contenuti significativi, democratici, non paternalistici. E un augurio: Back to the basics. Ritornare al concreto, all’industria, al fare. “Il rischio altrimenti è di perdere un’occasione” sottolinea Capodieci. Quella di diffondere l’aspetto più pragmatico del design contemporaneo, cha va ben oltre lo stile e si occupa di ridefinire le strutture stesse della cultura delle merci. “È un processo che riguarda la riparazione di un malinteso, perché aprirsi a un pubblico non specializzato o interdisciplinare è una delle risorse del progetto, uno strumento che fa parte del suo corredo genetico”. Luciano Floridi, in effetti, usa da tempo il termine design per parlare di tutti quegli strumenti e processi codificati, che servono a trovare risposte efficaci alle domande della modernità. Un filosofo della morale di Cambridge non è esattamente un progettista, ma il fatto che il significato della parola design sia slittato fino alla filosofia o ai manuali di autoaiuto stimola una ridefinizione della disciplina.
Cosa, come e a chi raccontare?
Precisa Giulia Capodieci. “La battaglia dell’attenzione è globale, non riguarda solo la design week. Bisogna andare oltre il problema di Instagram, di Facebook e del potere dei loro linguaggi”. Come? “Interrogandoci seriamente su cosa, come e a chi vogliamo raccontare il progetto”. L’ipotesi suggerita da Capodieci è quella di tornare a eventi più esperienziali, in cui la comunicazione non passa dal dire, ma dal fare. “Mi sembra interessante imparare a ibridare, a trovare funzioni diverse sia al digitale che al non digitale. L’esserci fermati può servire ad aumentare la densità delle riflessioni. Era quasi impossibile pensare di mettere in discussione l’esistente, adesso sarà possibile aprire strade nuove. Ci sono cose irrinunciabili del live. Ma esistono altri punti di vista che forse ci erano sfuggiti”.
La settimana del design è in effetti un momento in cui spesso sono saltati i normali paradigmi del racconto, che diventava eccessivo, a volte irreale. “In un mercato ipersaturo e bisognoso di progetti utili, è uno spreco di forza intellettuale e risorse economiche continuare a riprodurre entusiasmi effimeri”, sostiene Stefano Cardini, docente di brand identity alla Naba. “Forse questo momento di collasso può diventare un’occasione per pensare a medio e a lungo termine, lavorando sulla narrazione calibrata di progetti che trovino una sensata collocazione nel contemporaneo”.
Alternative escapiste o sperimentazione dissidente?
Prima che la design week fosse annullata, c’era chi aveva avuto l’audacia di pensare di sottrarsi al rito. Creando eventi privati, cercando una maggiore selezione del pubblico (un tema molto discusso dai fondatori dei distretti del Fuorisalone già prima del Covid-19), ideando una partecipazione che evocava, anzitempo, l’assenza e il silenzio. Il designer Antonio Aricò aveva programmato di non essere alla design week: “La mia idea era mettere le mie energie economiche e progettuali altrove, in qualcosa che avesse un senso forte per me”. Una posizione che non intendeva essere polemica: Aricò sostiene che il sistema funziona ed è inutile negare di farne parte, ma che avrebbe voluto “usare Instagram per ridare al pubblico della settimana del design la responsabilità di scegliere davvero di guardare un progetto”. Una serie di 24 storie e teaser, progettati da Aricò, sarebbero stati la misteriosa porta di accesso a un’esperienza immersiva e individuale. “Era un invito: prendete un aereo e raggiungetemi in un luogo diverso, remoto”. Ed è una risposta, inaspettatamente attuale, audace, a una crisi culturale che Aricò definisce come egemonia del risultato visivo sull’esperienza reale.
Ora si stratta solo di capire se il sistema design è maturo per avviarsi a una nuova rivoluzione del dialogo con il pubblico. Un processo evidentemente non governabile e dai risultati imprevedibili.
Immagine di apertura: Salone del Mobile, 2007