“La pandemia ha solo reso più evidenti i problemi che già avevamo, più urgente la necessità di trasformare le nostre città in costante crescita in comunità sane, prospere ed ecologiche”. Siv Helene Stangeland, co-fondatrice di Helen & Hard, ne è convinta. Pensa che si possa fare molto lavorando sul modo in cui sono costruite e organizzate le nostre case, che non risponde da tempo alle nostre esigenze, sia come individui sia a livello di società, al punto da contribuire a creare segregazione, solitudine, problemi di salute e persino la tendenza a consumare in eccesso. “Siamo portati a credere che il confine delle nostre case stia sulla soglia, ma ci dimentichiamo che fanno parte di una rete spaziale e di infrastrutture: flussi di materia ed energia, aria, acqua, scarti e altre filiere”, precisa.
Gli effetti della pandemia sulle dinamiche quotidiane nelle nostre case e negli spazi pubblici sono evidenti. Abbiamo vissuto in modi diversi da prima, oltre che più intensamente. Tra le mura domestiche, abbiamo passato più tempo a giocare con i nostri figli, a lavorare, abbiamo cucinato di più dato che i ristoranti erano chiusi. Poi abbiamo passato più tempo nei parchi locali, nelle piazze, nei campi da gioco, anche facendo più attività fisica dato che le palestre erano chiuse. Abbiamo smesso di viaggiare e anche di riunirci in pubblico, in ogni caso ci sono meno persone che partecipano agli eventi pubblici ora. È ancora presto per capire quanti di questi cambiamenti resisteranno alla “nuova normalità”, o in che proporzione, ma sono tutti indicatori su cui riflettere.
“Siamo diventati più locali e più consapevoli di tutto ciò che dobbiamo condividere. Le qualità o le mancanze ravvisate negli spazi e nei materiali che ci circondano sono diventati più visibili con la pandemia”, sintetizza la Stangeland. “Spero che riusciremo ad adottare approcci ambientali più olistici e cambiamenti in ambito di qualità e capacità, non solo per quanto riguarda regolamentazioni e sicurezza. Se sono queste ultime a determinare lo sviluppo delle nostre prossime città, ho paura che sarà difficile andare verso una crescita. Quello di cui abbiamo bisogno è costruire infrastrutture e architetture che possano accogliere comunità di assistenza e sostegno sociale che funzionino anche nei periodi di pandemia”.
Il virus ci ha fatto capire quanto le nostre case e i nostri vicini possano offrire, e anche l’importanza di ridisegnare gli spazi urbani. “È risultato anche chiaro che non possiamo fare affidamento sugli immobiliaristi per ottenere queste qualità, deve essere portato tutto a un livello politico”. Per solleticare gli attori politici e spingerli ad agire serve consapevolezza, da parte dei cittadini prima di tutto, e una maggiore sensibilizzazione su una scala ampia. Stangeland è moderatamente ottimista.
“A livello di città ci sono progetti etici coraggiosi che forniscono terreno fertile per iniziative più piccole e progetti che nascono dal basso. Come ad Amsterdam, dove si sta testando ‘l’economia della ciambella’, il modello di Kate Raworth che stabilisce strutture etiche precise per uno sviluppo cittadino sostenibile a livello ambientale. O con il progetto comunitario fresco e radicale Grobund a Ebeltoft, nello Jutland centrale, in Danimarca: occupando un grande ex terreno industriale, 100 abitanti cercano di realizzare una vita autosufficiente e sostenibile senza bisogno di accedere a un prestito bancario per l'avvio di un'attività. E poi, la nostra esperienza in studio ci dice che sempre più aziende e clienti chiedono di progettare nel rispetto degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite”.
Siamo diventati più locali e più consapevoli di tutto ciò che dobbiamo condividere. Le qualità o le mancanze ravvisate negli spazi e nei materiali che ci circondano sono diventati più visibili con la pandemia.
Sono esempi che possiamo considerare “grandi opere”? “Tutti i progetti che introducono cambiamenti a nella sostenibilità a livello sistemico sono importanti, come pure sostenere catene, risorse e produttori che hanno un valore locale, o fornire laboratori fai-da-te”, precisa. “Un altro passo verso la sostenibilità è costruire con il legno, invece che con cemento e acciaio”. Ma anche lavorare su come abitiamo.
Al padiglione dei Paesi nordici, curato da Martin Braathen del National Museum of Norway, si parla di co-housing e di Vindmøllebakken, il progetto dello studio norvegese a Stavanger, in Norvegia, animato da un “vivace spirito democratico” nel quale i residenti hanno appartamenti completamente attrezzati con molte strutture e spazi comuni. L’indagine verte sul ruolo dell’architettura visibile e invisibile nel sostegno di queste comunità basate su pratiche di vita socialmente sostenibile. “A Venezia sviluppiamo ulteriormente l’dea di condivisione per rispondere alla domanda: possiamo trasferire altri aspetti delle nostre vite dai nostri appartamenti a uno spazio semi-pubblico? La pandemica che viviamo mette alla prova queste idee. Ecco perché è necessario avere modelli abitativi che ci aiutino a socializzare in sicurezza, a costruire comunità di sostegno e a non lasciare che l'allontanamento e l'isolamento diventino l'unica risposta. Il progetto per la Biennale si basa sul modello dell'edilizia residenziale commerciale, introducendo una nuova interfaccia tra appartamenti e spazio comune – la zona di condivisione semi-privata. Si basa su processi collaborativi e su uno stretto dialogo tra architetti e residenti, implementando un sistema di costruzione sostenibile, innovativo e open-source in legno massello”.
Nei Paesi nordici, il lavoro su modelli di co-housing è stato avviato negli anni Settanta, spaziando tra diversi estremi: da grandi comunità organizzate razionalmente a piccoli e poetici progetti di convivenza; dalle utopie religiose o politiche agli alberghi familiari prebellici (che sostenevano la liberazione delle donne) e ad alternative radicali nei confronti delle norme sociali del momento. Oggi qual è la situazione? “Le motivazioni alla base dell'interesse verso questo modello abitativo sono diverse a livello ambientale, economico o sociali”, risponde Stangeland. “C'è una nuova generazione per la quale la condivisione è del tutto normale”. Ottime premesse perché questo modello si sviluppi e prenda piede. Certo, l’architettura ha un ruolo cruciale in questa possibile evoluzione. “Penso che attualmente l’architettura venga intesa come prettamente legata a un investimento economico, mentre dovrebbe essere vista come un investimento nei nostri beni comuni. Idealmente, dovrebbe: alimentare potenziale di un luogo e dei suoi abitanti, che è specifico e unico; essere inclusiva nei confronti di persone, risorse locali e ambiente fisico a portata di mano; fornire le necessarie cure sociali e ambientali e le conseguenti trasformazioni; invitarci a incontrarci e a trovare un significato a livello collettivo; ispirarci a contemplare e valorizzare la natura e commuoverci con la bellezza”.
Siv Helene Stangeland (Stavanger, Norvegia, 1966), ha studiato architettura a Oslo con Sverre Fehn (che ha progettato il padiglione dei Paesi nordici a Venezia) e Christian Norberg-Schulz. Ha fondato Helen & Hard nel 1996 con Reinhard Kropf.