Ci attende una nuova serenità, nel 2038

Ne sono convinti i curatori del padiglione della Germania, un collettivo di esperti in diversi campi che guardano agli anni difficili del 2020 dal 2038. Per ragionare su come progettare un buon futuro.

Quando è stato presentato il programma del padiglione tedesco, nel febbraio 2020, eravamo ancora inconsapevoli di cosa si profilava all’orizzonte. Eppure, i curatori avevano titolato “2038. The new serenity” il progetto in cui avrebbero raccontato di una serenità raggiunta dopo aver superato le grandi crisi e i disastri economici ed ecologici della difficile decade del 2020 che era però riuscita ad avvicinare persone, stati, istituzioni e aziende. Un sano mix di catastrofismo profetico e ottimismo animava il team internazionale al quale hanno dato avvio Arno Brandlhuber, Olaf Grawert, Nikolaus Hirsch e Christopher Roth nel 2019 a Berlino. 
Chiaramente, le premesse di quella ricerca erano già tutte nel tema posto dal curatore della Biennale di Architettura veneziana 2020, poi spostata al 2021, dal 22 maggio al 21 novembre. Hashim Sarkis lo aveva espresso in quella domanda – “come vorremo vivere noi tutti insieme?” – che tutti ci stiamo ponendo oggi con forza rinnovata e che noi giriamo direttamente ai 2038 (nessuno del gruppo fa da portavoce, tutte le risposte sono collettive).

Per consentire di calarsi fino in fondo in quella dimensione temporale distorta proposta dai curatori di 2038, le grandi stanze del padiglione tedesco sono state lasciate completamente spoglie, con le pareti bianche interrotte solo da QR code grazie ai quali vedere e ascoltare i video-racconti registrati nel 2038 che spiegano come le persone, gli Stati, le istituzioni e le industrie si siano impegnati per i diritti fondamentali e abbiano creato, insieme, sistemi vitali e strutture che hanno consentito di creare modelli diversificati di coesistenza, e come spesso siano stati gli architetti a dare le risposte giuste.

Niente sovrastrutture, solo noi, i nostri auricolari e le voci rassicuranti di chi ha superato il peggio, accompagnati dalla sensazione di avercela fatta, incredibilmente, ancora una volta. Si supera così lo shock e la sensazione straniante che si prova quando si entra in questo grande tempio vuoto, ma denso di idee.

“Prima di tutto bisogna sottolineare come quello di Sarkis sia un gran bel titolo”, ci tengono a precisare. “Il modo in cui la pandemia ha accelerato sia gli aspetti positivi sia quelli negativi che ci sono nel mondo ha reso quel titolo ancora migliore. Tutti i problemi di oggi c'erano prima del coronavirus e si aggraveranno a breve termine. Ma sul tavolo ci sono molte possibilità, idee e teorie – alcune ci sono da molto tempo – che ora rendiamo reali per far attuare un cambiamento sistemico. La domanda di Hashim è così buona perché la proietta verso il futuro usando will. Non parla di presente, non usa want, non parla di possibilità, non usa can, quindi neppure ipotizza di non potere. E poi include tutti i soggetti, umani e non, in quel noi, e sottolinea con precisione il potenziale di insieme, sia a livello locale sia all’interno di un quadro planetario”. Ma torniamo alle ricadute di questo pensiero sul progetto tedesco. “Abbiamo reso le cose un po' più difficili per noi stessi e abbiamo scelto la prospettiva dell'anno 2038, chiedendoci retrospettivamente come eravamo riusciti a cavarcela. Il nostro progetto per il padiglione tedesco a Venezia è una rassegna cinematografica che parte dal 2038 e arriva al 2020. II cambiamento sistemico che vi si ravvisa è stato possibile solo dopo una serie crescente di crisi sociali, politiche, economiche e pandemiche all'inizio del 2020. Solo allora il mondo è tornato in sé e si è traghettato verso un'era di nuova serenità”. 

Noi di 2038 siamo pessimisti a breve termine e ottimisti a lungo termine.

Che genere di serenità avremo nel 2038?, chiediamo ai 2038. “Non cambieremo le persone, ma troveremo modelli sistemici che siano praticabili e sostenibili per tutti. Ci saranno ancora persone cattive in giro. Come dice E. Glen Weyl in “2038”: 'È come in Star Trek. Le persone sono ancora incasinate e imperfette e accadono ogni sorta di cose brutte. Ma si tratta anche chiaramente di un mondo decisamente migliore, in modi piuttosto profondi e radicali. Non ha senso però dire che siamo arrivati a qualcosa di simile al Nirvana’”.   

Intanto, siamo tutt’altro che sereni e siamo alle prese con gli effetti della pandemia sul nostro modo di abitare e vivere gli spazi pubblici? Quali cambiamenti ci sono stati? “Parliamo sempre di intensificazione di una situazione esistente. Dobbiamo essere in grado di rispondere alle domande che ora vengono poste a gran voce. Che ne sarà piuttosto di quelli che non hanno una casa e vivono nei nostri spazi pubblici? Poi, la differenza tra pubblico e privato sta praticamente implodendo, visto che diventiamo tutti sensori per la Big Tech. Dati, statistiche, algoritmi, gestione delle strutture, tecnologia di sorveglianza e applicazioni sanitarie organizzano sempre di più le relazioni sociali e quindi creano un nuovo spazio totalitario. Per questo abbiamo bisogno di decentralizzare completamente i dati. Alla fine, tutti devono avere una propria intelligenza artificiale. Parafrasando “2038”: ‘Le case stesse dovevano diventare modelli di democrazia’". 

We_had_enough_1, 2023. © 2038

Certo, viene da chiedersi se il virus possa operare cambiamenti profondi come quelli a livello di sicurezza in aeroporti, stazioni ed edifici pubblici conseguenti al crollo delle Torri gemelle nel 2001. “L'11 settembre è un modello di come le crisi possono essere utilizzate, anche in modo improprio. Noi di 2038 siamo pessimisti a breve termine e ottimisti a lungo termine”. Quindi, come possiamo farcela? “Impegnandoci a praticare i diritti fondamentali e creando tutti insieme sistemi autosufficienti su basi universali, dando alle strutture locali lo spazio necessario a mantenere il loro peculiare modo di vivere”, sostengono. 
E l’architettura, che ruolo deve avere in una società virtuosa? “Deve uscire dalla bolla. Non lamentarsi”, è la risposta secca. Valori che tutti dovremmo condividere, secondo il collettivo. “Bisogna espande il campo d’azione dell’architettura verso quelle zone grigie che gli architetti hanno ignorato per decenni: burocrazia, legislazione, codifica, contratti sociali, riforma agraria. È qui che la nuova architettura verrà praticata”. 

Si sta lavorando molto in questa direzione, dicono. E citano architetti come Thomas Rau ed economisti come Sabine Oberhuber, autori di Material Matters (2016) su economia circolare e catene valoriali. Poi Diana Alvarez-Marin e V. Mitch McEwen, architetti che in “2038” parlano di codifica e alfabetizzazione digitale, di come abbiano decentralizzato la nostra società attraverso i contratti sociali (Diana), come i neri americani dopo il crollo del 2023 hanno iniziato a codificare. Poi citano Sénamé Koffi Agbodjinou con le HubCités in Togo e il Baubotanik di Ferdinand Ludwig e Daniel Schoenle, che mette in discussione la differenza tra interni ed esterni degli edifici. Bollando come avviata sulla via del tramonto l’epoca degli star-architects che hanno “la fissazione dell’oggetto architettonico” e costruiscono musei, stadi olimpici e teatri dell’opera, guardano ai progetti meno visibili – le nuove grandi opere – come la Malaria House, che un gruppo di architetti internazionali sta costruendo in Tanzania: 110 abitazioni che dimostrano come il solo progetto di una casa possa proteggere dalle zanzare che portano la malaria. “È una specie di ricerca medica applicata”, sintetizzano. E poi citano Buckminster Fuller, che aveva ideato negli anni Sessanta World Game per “…far funzionare il mondo per il 100 per cento dell’umanità nel minor tempo possibile tramite la cooperazione spontanea, senza offesa ecologica o svantaggiare nessuno”. 

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