In questa edizione della Biennale Architettura, il padiglione degli anni Trenta di Williams Adams Delano e Chester Holmes Aldrich non si vede. O meglio, la struttura neopalladiana si intravede fra i 2-by-4, i componenti prefabbricati di legno del sistema costruttivo del ballon frame, nato nel XIX secolo. L’impilarsi dei 2-by-4 su tre piani, genera temporaneamente una nuova facciata e una corte riparata dal brusio dei Giardini per il padiglione nazionale. American Framing, questo il titolo della mostra curata da Paul Andersen e Paul Preissner, non è che il racconto della più diffusa tradizione costruttiva statunitense nel suo snodarsi fra spazio architettonico e implicazioni economiche, culturali e sociali. Con questo metodo sono infatti costruite il 90% delle case sul suolo statunitense.
Incontriamo Andersen nella corte e ci invita a scalare la facciata temporanea del padiglione. Su come questo tema risponda alla domanda posta da Hashim Sarkis “How will we live together?”, l’architetto risponde “negli Stati Uniti, il balloon frame è decisamente il metodo costruttivo più comune, specialmente per gli edifici residenziali. Non importa quanto denaro si abbia a disposizione per realizzare la propria casa, l’elemento di base è sempre lo stesso per tutti. C’è quindi qualcosa di intrinsecamente egualitario in questo sistema costruttivo”.
C’è quindi qualcosa di intrinsecamente egualitario in questo sistema costruttivo.
Il ballon frame, nonostante non sia in assoluto un argomento bistrattato dalla storiografia e dalla critica dell’architettura, è scelto come argomento a partire dalla sua rilevanza in termini quantitativi e di impatto sulla cultura del Paese, quasi come un koolhaasiano ‘fondamento’. Dentro il padiglione, il percorso si svolge fra modelli architettonici in scala e due diversi ma complementari racconti fotografici di Chris Strong e Daniel Shea, commissionati per l’occasione. Il primo, documentaristico, narra di come la produzione e la costruzione si intreccino alla vita umana; il secondo è invece un’interpretazione più concettuale, con stampe in bianco e nero e sovrapposizioni di più soggetti. All’interno e all’esterno si trovano una serie di arredi realizzati da Ania Jaworska e Norman Kelley. A fare da perno, nella sala circolare che fa da snodo alle due ali dell’edificio di Delano e Aldrich, è un piccolo e ironico modello in scala della cuccia di Spike, il bulldog di Tom e Jerry, a richiamare l’immaginario della pop culture sul metodo costruttivo.
L’impressione generale è che l’edificio storico, figlio di anni in cui i padiglioni avevano il ruolo di celebrare una nazione attraverso narrazioni propagandistiche e facciate di pietra, si sia ritrovato complessivamente messo sottosopra da American Framing. Facciata e corte, il primo scalabile e la seconda abitabile, hanno sì qualcosa dell’“I am a Monument” di Venturi, Scott-Brown e Izenour, ma risultano per lo più leggibili come gesti educatamente sovversivi nella loro generosità. Andersen e Preissner usano il vecchio padiglione risemantizzandolo, opponendo il valore dell’ordinario a quello della narrazione che tanto (e giustamente) viene contestata a Biennali e Triennali che conservano ancora un’impostazione inattuale, fortemente mono-nazionale. Nel padiglione si mostra, per esempio, un modello in scala della kit-home degli anni Trenta, all’epoca venduta per mezzo di un catalogo, e come questa racconti una storia diversa dall’edificio (suo coetaneo) che la contiene.
In una Biennale dove ci si ritrova talvolta sopraffatti da risposte chiassose, ambigue e dubbiamente visionarie, il padiglione statunitense è una risposta pienamente architettonica, pragmatica e sensibile, oltre che una mostra visivamente cristallina, nel messaggio come nel proposito. Il racconto che i due architetti e docenti prestati alla curatela scelgono di fare, in anni in cui gli Stati Uniti sono infiammati dalle proteste sociali, è quello dell’architettura più familiare agli americani, quella che può assecondare i desideri, quella che è nata e rimane accessibile da ormai più di due secoli.