Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Domus 1059, luglio e agosto 2021.
“Come vivremo insieme?” Con questa domanda, la 17. edizione della Biennale di Venezia conclude un ciclo avviato 11 anni fa con “People meet in architecture” (Kazuyo Sejima, 2010), proseguito con “Common Ground” (David Chipperfield, 2012), rilanciato da “Reporting from the front” (Alejandro Aravena, 2016) e ripreso nel 2018 da “Free Space” di Yvonne Farrell e Shelley McNamara. Un decennio significativo che, salvo la parentesi del 2014 (“Fundamentals” di Rem Koolhaas), ha visto concentrare sempre più l’attenzione sul progetto dello spazio pubblico e su un’architettura porosa e generosa di opportunità di convivenza. Nell’interpretazione proposta da Hashim Sarkis è evidente, tuttavia, un salto di scala, misurabile non solo dalla totale (e positiva) scomparsa di ogni residuo di star system (sostituito da un dispositivo curatoriale basato su cluster di ricerca e team di competenze diversificate), ma anche – come molti hanno osservato – dalla paradossale scomparsa dell’architettura stessa.
O meglio, dall’affermazione (implicita) dell’architettura come “oggetto trascurabile” (per chi ha memoria degli anni Settanta, spietata diagnosi di Manfredo Tafuri) e la sua rinascita come gesto politico in cui spazio e forma (alla base del Nuovo Testamento fissato da Sigfried Giedion nel monumentale Space, Time and Architecture) perdono consistenza dissolvendosi nell’urbanistica e nella pianificazione statale. Al punto che – in mezzo a una miriade d’installazioni dal simbolismo sia ermetico sia naif – appare quasi una rinfrescante provocazione il padiglione belga con l’efficace riproposizione di una scenografia urbana in stanze affollate da modelli (1:50) di edifici esistenti, ma ricontestualizzati nel format del ‘capriccio’ aldorossiano: vaga evocazione dell’archeologismo di John Soane o della metafisica dechirichiana della città compressa in un interno.
Il paesaggio post-apocalittico, nelle Corderie e nel Padiglione centrale ai Giardini, ha l’odore dell’utopia sfumata nell’acido di un’umoristica distopia, tra Asimov e Orwell: un futuro inquietante di provette da laboratorio di biologia, di sassi inspiegabilmente trafitti da tubi luminescenti o sospesi come spade di Damocle sulle residue certezze di una presenza umana contesa da comunità microbiotiche con cui e bene, però, imparare a convivere. Dappertutto, la strisciante (forse benefica?) invadenza di radici, muffe, terricci, alghe, organismi d’ogni genere che, da invisibili abitatori dell’Antropocene, diventano protagonisti di una scena planetaria in cui il loro aiuto sara determinante per l’eutanasia consapevole dell’homo sapiens. Se vogliamo far valere i diritti della natura bisogna distogliere lo sguardo dalle pretese degli ‘umani’ in favore di nuovi stakeholder – minerali, semi e persino coccinelle, oltre che, ovviamente, deserti, oceani, montagne – con i quali progettare ambienti simbiotici, prototipi dell’architettura vivente del XXI secolo.
Come la stanza realizzata con materiale strutturato e poroso per accogliere microclimi diversi per altrettanti tipi di microbi: dopo secoli in cui la scienza tradizionale ha combattuto una crociata sterminatrice in favore della sterilita dell’igiene, si rivendica insomma una jihad microcellulare da cui la nuova scienza fa dipendere il benessere emotivo, sociale e fisico degli esseri umani. E l’“ecosistema di empatia e coesistenza”, la ‘urbanosfera’ di cui ci avvertono enigmatiche spiegazioni disseminate ovunque con la chiarezza del jargon progressista dell’Accademia riformata dal MIT, la cui chiarezza fa rimpiangere persino la più trita retorica dell’onnipresente ‘sostenibilità’. Ma, se si punta a riportare la natura nell’artefatto, si sperimentano anche regole di convivenza tra l’uomo e le macchine, all’insegna della biologia e, qualche volta, dall’involontaria ironia di proposte come il maternity menswear (che esplora la gravidanza non femminile) o del Heavy Duty Love, il dispositivo di Lucy McRae per rispondere all’interrogativo: “Potrebbero delle macchine spugnose creare fiducia e connessione, restituendo l’abbraccio di un genitore scomparso in virtù di origini costruite in laboratorio?”.
Non manca quasi niente in questa Biennale assai simile al format di una call for paper o a parco a tema di idee che si dilatano all’infinito: migrazioni e nuove povertà, l’emergenza ecologica e l’ambientalismo, l’identità di genere e l’intelligenza artificiale, il Black Lives Matter e il Covid-19, nuovi materiali e tecniche arcaiche. Un accalcarsi incessante di domande e ricerche cui sfugge tuttavia la banale constatazione che ancora non si conosce un sistema più sostenibile e resiliente della città storica. Colpisce, dunque, l’ottimismo di Sarkis che, gettando una spugna su decenni di architettura iconica, carismatica, massmediatica, attribuisce ai soli politici l’attuale fallimento riservando all’architetto il ruolo di “cordiale catalizzatore”: addirittura di “custode del contratto spaziale” che liquida il “contratto sociale” su cui si era costruita l’epopea del secolo breve.
Immagine di apertura: Padiglione del Belgio alla 17. Biennale di Architettura, Venezia 2021. Foto Giulia di Lenarda