Poco meno di dieci anni fa, sotto la direzione del regista Malik Bendjelloul, due uomini sudafricani si mettono sulle tracce di Sixto Rodriguez, cantautore politico statunitense degli anni ‘70 diventato artista di culto in Sud Africa, ma praticamente sconosciuto in patria.
La storia confluisce nel documentario premio Oscar “Searching for Sugar Man”, ma soprattutto diventa paradigma di tutte quelle di personaggi che, seppur noti in specifiche sacche geografiche, per qualche motivo sono sempre sfuggiti al radar occidentale. A questa categoria potrebbe presto aggiungersi anche l’architetto iugoslavo Svetlana Kana Radević.
Montenegrina, classe 1937, Radević – o, come nota in patria, semplicemente Kana – è stata uno degli architetti cardine del tardo modernismo iugoslavo. Prima di tutto, però, Kana è stata una donna capace di sfidare barriere tanto di genere quanto geografiche in un mondo che faceva di confini (fisici e ideologici) i suoi fondamenti. Kana era un’eccezione femminile in un settore dominato da colleghi uomini, ma soprattutto un architetto sfuggente, capace di vincere premi, di concepire progetti iconici per la Iugoslavia, ma altresì di lasciare dietro di sé una biografia incerta e tante domande.
Ci pensa il Montenegro a fare luce su questa storia con una mostra presso Palazzo Palumbo Fossati nel contorno della Biennale di Architettura di Venezia. Curata da Dijana Vucinic e Anna Kats, “Skirting the Center: Svetlana Kana Radević on the Periphery of Postwar Architecture” utilizza i ricchi e in gran parte inediti archivi grafici e fotografici privati dell’architetto scomparso nel 2000 nel tentativo di unire i puntini e far (ri)scoprire al resto del mondo uno dei suoi più brillanti talenti architettonici.
Nata nella capitale Cetinje, Svetlana Kana Radević cresce familiarizzando con gli scenari urbani post-bellici, maturando una sensibilità – forse una necessità intrinseca – per un’architettura nuova che si manifesta in un dialogo proficuo tra il brutalismo iugoslavo e il modernismo panamericano. Dovrebbe stupire, ma dopotutto no, la dimestichezza, in piena Guerra Fredda, di un architetto iugoslavo con l’edilizia domestica Statunitense e con le opere pubbliche della Brasilia di Niemeyer.
Eppure è nelle fessure della storia che si inseriscono le vite e le storie degli individui, innescando sovrapposizioni culturali e raccontandoci di una società – e di conseguenza della sua architettura – oltre le dottrine politiche e le storiografie ufficiali.
La vita di Kana ha, per l’appunto, questo sapore, perché raccontata attraverso bozzetti, disegni preparatori, fotografie amatoriali, Polaroid, filmati in Super8, carteggi, lettere battute a macchina, tesserini che restituiscono un ritratto intimo, dunque umano e tangibile, di un architetto spesso troppo legato a una rappresentazione ufficiale che la Iugoslavia ne faceva.
Certo, diverse sono le opere militanti, come gli spomenik, monumenti celebrativi della politica di regime e memoriali di guerra (si veda il Monumento ai Caduti a Lješanska Nahija, Barutana Podgorica), ma altrettante sono quelle dal forte respiro internazionale, specchio di un architetto attento all’evoluzione della disciplina, in constante bilico tra occidente e oriente.
È proprio su questa linea che si sviluppa il nodo che permette di capire a fondo – o, forse, ne lascia il più grande interrogativo – la persona e la produzione di Radević. Ne sono esempi, su tutti, la stazione degli autobus di Podgorica e, soprattutto, l’Hotel Podgorica, che media tra estetica propria dell'ex blocco sovietico e sensibilità modernista brasiliana nella sua facciata severa ma altrettanto ritmata che segue il movimento degli argini del fiume Morača su cui si affaccia.
Dopo il brillante conseguimento di una laurea triennale presso la facoltà di architettura dell’Università di Belgrado, L’Hotel Podgorica è il trampolino di lancio che vale a Kana, ancor prima dell’inaugurazione, la copertina della rivista Arhitektura Urbanizam e il Federal Borba Prize for Architecture nel 1967. A soli 29 anni, Radević si presenta a ritirare il più prestigioso premio d’architettura iugoslavo vestita come una Bond Girl dandy: twin set di velluto scuro e una camicia a balze con enormi polsini di pizzo. Un’immagine che stride con la sobrietà della giuria maschile e, soprattutto, con la cultura locale, certo ricca ma legata ai vincoli di regime.
È nella curatela di un’immagine fortemente personale, in cui a emergere sono la femminilità e l’estetica dell’architetto oltre ai suoi progetti, che risiede l’unicità di Kana, quasi archistar prima della nascita del concetto stesso, icona pop pur non aderendo a movimenti di rottura antiarchitettonica.
La vocazione internazionale – e, chissà, forse femminista – di Radević si manifesta comunque oltre la sua estetica, concretizzandosi, tra il 1972 e il 1973, con la frequentazione della Master Class di Louis Khan alla University of Pennsylvania, di cui Kana è una delle sole 16 studentesse a laurearsi dal corso nei suoi 19 anni di durata. Un percorso di studi in cui il giovane architetto montenegrino dimostra, come ricorda un compagno di studi, “maturità intellettuale e inclinazioni filosofiche”, che le valgono una borsa di studio iugoslava per la frequentazione di un dottorato sotto Khan.
Le foto amatoriali che tengono traccia dei progetti – come l'istantanea scattata quasi più per ricordo che per velleità artistica a una sedia Lily all'interno dell'Hotel Zlatibor – restituscono l'immagine di un essere umano prima ancora che di un professionista dell'architettura. Dal materiale esposto emerge la lungimirante dedizione di Radević alla curatela di un archivio iconografico personale a decenni di distanza dall'avvento dei social media.
Nel 1977, però, i fondi vengono improvvisamente tagliati, le notizie biografiche si fanno lacunose, e Kana scompare da Philadelphia. Riapparirà in patria, per poi trasferirsi in Giappone dove lavora per l’atelier di Kishō Kurokawa, pur continuando a operare in Montenegro, dove apre un suo studio che rimarrà attivo fino alla fine degli anni ‘90. Qui realizza altri amiziosi progetti come l'Hotel Zlatibor (1979-81), per i cui interni Kana concepisce la sedia Lily, altro tassello che permette di capire la sua dimestichezza con il design modernista e gli interni dei club occidentali.
In questo ritorno in patria emerge il sincretismo del pensiero e dell’opera di Radević, architetto e donna con una spiccata vocazione transnazionale, ma altrettanto figlia – chissà quanto militante nell’intimità – della cultura sovietica.
Mentre nei giardini della Biennale si intravede, glorioso ma ramingo, il padiglione chiuso e abbandonato della Iugoslavia, la mostra allestita dal Montenegro ci ricorda, senza nostalgie di sorta, come heritage e contemporaneità possano dialogare attraverso l’intimità degli archivi e l’ufficialità delle idee di Svetlana Kana Radević, ponte ora non più negletto tra blocco occidentale e orientale.
La mostra “Skirting the Center: Svetlana Kana Radević on the Periphery of Postwar Architecture” può essere visitata gratuitamente presso Palazzo Palumbo Fossati, Venezia, fino al 21 Novembre 2021.