Heinrich (Johannesburg, 1970) e Ilze Wolff (Cape Town, 1980) vedono lo studio che hanno fondato a Città del Capo nel 2012 come “un veicolo per affrontare le disuguaglianze sociali, così come la cancellazione dei paesaggi e delle narrazioni indigene”. Il “progetto spaziale” rimane al centro delle loro attività, ma si combina con diverse discipline e missioni – fotografi, artisti, registi e scrittori – arricchendosi così di un profilo di ricerca che attraversa difesa sociale, arte concettuale, editoria e formazione universitaria.
Heinrich Wolff ha vinto il Daimler Chrysler Award for Architecture (2007) e il Lubetkin Award (2005). Ilze Wolff ha sempre portato avanti progetti di ricerca multidisciplinare, tra cui il libro Unstitching Rex Trueform. The Story of an African Factory (2017), che studia la vicenda di un’iconica industria vestiaria di Cape Town in quanto luogo di molteplici racconti, immaginari e costruzioni di identità. In una quotidiana integrazione della pratica professionale con servizi di consulenza, una galleria d’arte in studio, una pubblicazione e interventi artistici site specific, Wolff Architects si è confrontato spesso con il tema espositivo, come per “African Mobilities” (Monaco di Baviera, 2018), il cui allestimento polarizza, attorno a una costellazione di spazi sociali, un’esplorazione delle visioni urbane orientate verso l’Africa.
Nella pratica progettuale, lo studio ha spesso interpretato il dispositivo tecnico come dispositivo spaziale e soprattutto sociale. È il caso della tettoia che copre la corte della Cheré Botha School (Bellville, Cape Town, 2019), espandendo così, in sinergia con una serie di strutture a forma di A, lo spazio condiviso all’esterno delle singole classi. Oppure dell’addizione per il Vredenburg Hospital, Western Cape, South Africa (2019) dove una copertura – la cui speciale sezione fa convivere impianti e illuminazione naturale – diviene super-forma fissa sotto cui si può sviluppare la sotto-forma di un paesaggio fatto di stanze a celle.