Un piede in due scarpe: l’innovazione tecnica e l’umanesimo. Artemide viene fondata da Sergio Mazza ed Ernesto Gismondi nel 1960 con questo posizionamento. Il loro linguaggio non è però quello oggi in uso nel marketing. Ad animarli, è piuttosto una visione olistica del benessere, che sa guardare al contesto, ha fiducia nella capacità di innovazione data dalla tecnica, ma non dimentica la centralità dell’uomo e delle sue esigenze in divenire. Di Artemide, Gismondi sarà l’animatore e la colonna vertebrale fino alla recente scomparsa nel 2020; il motto di riferimento, condiviso da tutto il gruppo di lavoro – tra cui spicca Carlotta de Bevilacqua, oggi Amministratore Delegato – diventerà col tempo “The Human and Responsible Light”.
Le 8 luci di Artemide che non puoi non conoscere
Nata nel 1960, ha nel suo catalogo alcune delle più belle luci mai realizzate, firmate da grandissimi nomi del design: ecco una selezione dei suoi prodotti più emblematici.
Courtesy Artemide
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foto credits: Sergio Libis
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- Giulia Zappa
- 03 dicembre 2024
È del resto la atipica formazione di Gismondi a spiegare come e perché Artemide sia un caso unico nel panorama delle aziende di illuminazione. Dopo solidi studi classici, tipici del milieu borghese a cui appartiene, Gismondi si laurea due volte in due ambiti dove la tecnologia è il differenziale netto: l’ingegneria aeronautica e l’ingegneria missilistica. È da qui che nasce lo spiccato Dna tecnico del catalogo. Nei primissimi anni di vita di Artemide, i primi progetti includeranno, complice Mazza, anche arredi e accessori impiegando il nuovo materiale del decennio, la plastica, come testimoniano oggetti come Toga (di Sergio Mazza) e Selene (di Vico Magistretti). Successivamente, però, l’illuminazione diventerà la specializzazione verticale dell’azienda. I primi successi commerciali e di critica, in quell’Italia del boom che è tutta un brulichio di imprenditorialità, crescita ed ottimismo, arriveranno presto, prendendo i nomi di Alfa, Eclisse, Nesso, Aggregato, e quindi Tizio, Tolomeo...
Niente però per cui restare sugli allori. Superando la sfera del prodotto consumer, la progettualità di Artemide ha manifestato precocemente la volontà di dimostrarsi sistemica e architettonica. Tanti prodotti in catalogo sfuggono all’ideale scultoreo del corpo illuminante, per aprirsi all’inserimento sartoriale in un ambiente dato: è il nuovo corso incarnato nel 1985 da Aton, la prima barra illuminante a sospensione, a cui seguiranno moltissimi altri progetti. Altro punto di svolta, il progetto Metamorfosi, con cui Artemide lancia negli anni Novanta lo studio sulla luce colorata, intesa non come una virtuosistica hubris tecnologica, ma come la restituzione emozionale di un’affinità a servizio del benessere psicofisico dell’utente.
Interessandosi agli avanzamenti tecnologici, Artemide ne anticiperà le applicazioni nel campo illuminotecnico. Le due prime lampade a Led, Sui e Kaio, rispettivamente di de Bevilacqua e Gismondi, vengono presentate a cavallo del millennio. Quindici anni più tardi, seguiranno le prime ricerche e sperimentazioni sull’IoT, l’Internet delle cose, e sul Li-Fi, una tecnologia di comunicazione dati che utilizza la luce visibile e che, grazie a sorgenti Led, consente a un sistema di illuminazione di funzionare anche come infrastruttura per la trasmissione e gestione dei dati. Le collaborazioni con i grandi nomi del mondo dell’architettura saranno l’altro fiore all’occhiello della casa di Pregnana Milanese, con il coinvolgimento tra gli altri di Big – Bjarke Ingels Group, Mario Cucinella, Foster+Partners e Herzog & de Meuron.
Il missile che Gismondi sognava di costruire da giovane non è mai divenuto realtà. Il che non è necessariamente un male. La dea greca della caccia, da cui Artemide prende il nome, sembra comunque aver preso una buona mira, portando fortuna a questo marchio così longevo. Nel 1994 l’azienda ha ricevuto il Compasso d’Oro alla carriera, a cui hanno fatto seguito l’European Design Prize nel 1997 e il Premio Leonardo Qualità Italia nel 2012.
Immagine di apertura: Vico Magistretti, Eclisse. Courtesy Artemide
Questa grande icona del design italiano è senz’altro tra le lampade dal maggiore fascino atmosferico, capace com’è di far mutare la propria capacità espressiva, insieme a quella dello spazio intorno, attraverso un semplice movimento rotatorio che evoca il moto dei corpi celesti. Si dice che Vico Magistretti abbia progettato questo abat-jour ispirandosi alle lanterne de I Miserabili di Victor Hugo. La sua forma un po’ space age, tuttavia, respinge qualsiasi formalismo vernacolare, e soprattutto qualsiasi riferimento morale al rapporto tra luce e tenebre tipico del maestro francese, preferendogli piuttosto la fascinazione per una geometria di forme pure.
La geometria è anche la ragione del suo funzionalismo performante: la presenza di due paralumi sferici e concentrici, di cui uno interno e rotante, gli permette di schermare, in maniera parziale o integrale, la luce della lampadina. Compasso d’Oro nel 1967, fa oggi parte delle collezioni dei musei di design di tutto il mondo. Ancora in produzione, è uno dei principali long seller della storia del design. Poco o niente è cambiato rispetto al suo design originale. Una piccola manopola è stata integrata per facilitare la rotazione del paralume, mentre il processo di verniciatura del metallo ha oramai abbattuto emissioni e uso di solventi.
A che cosa assomiglia una lampada? E come è possibile che possa assumere una forma mutante? Livio Castiglioni e Gianfranco Frattini offrono una risposta eminentemente pop a queste domande. Per immaginare questa lampada lineare, l’ispirazione arriva dal tubo in PVC di un aspirapolvere. A rafforzarne efficacia e durata, ci pensano gli anelli di metallo. Per renderlo illuminante, ci sono 25 lampadine su una lunghezza di due metri.
La sua natura modulabile la rende estendibile, permettendo il collegamento fino a quattro Boalum diversi. Domus la definì “un serpente di luce infinita”, con la differenza che Boalum non istiga paura, ma al contrario ricerca l’interazione con il suo utilizzatore, che può plasmarla secondo le sue abitudini o secondo il capriccio. In produzione dal 1970 al 1983, oggi è stata ricostruita per l’utilizzo di luci a LED.
È uno dei grandi capolavori di Richard Sapper, insignito di un Compasso d’Oro nel 1979, un oggetto dove la forma, al suo grado zero, scaturisce esclusivamente dall’eleganza di una nuova implementazione tecnica.
La sua forza risiede nel comfort visivo che può garantire sotto ogni circostanza grazie al braccio controbilanciato e alla testa orientabile, che si spostano con grande delicatezza con il gesto di una sola mano, trasformando in una danza aggraziata la traiettoria di tutte le sue possibili configurazioni nello spazio. La base cilindrica ospita un trasformatore che alimenta una piccolissima lampada alogena grazie ad aste e giunti a pulsante, senza bisogno di cavi.
È una lampada atemporale, lontana dai protagonismi, capace di mimetizzarsi ovunque apparendo sempre appropriata. Michele De Lucchi l’ha progettata come rilettura personale della Naska Loris, la lampada da tavolo del 1933 con le molle a vista; Giancarlo Fassina, ingegnere di produzione, ha dato un contributo decisivo al suo innovativo sviluppo tecnico. Come già Tizio, Tolomeo è una lampada in movimento: grazie alla struttura a braccio snodato, che occulta al suo interno un bilanciamento a molle, la lampada può essere spostata a piacimento a partire dal diffusore in alluminio satinato.
Compasso d’Oro nel 1989, è forse il più grande bestseller del design italiano, e lo è sicuramente tra i prodotti del catalogo Artemide. Solo l’anno dopo il lancio, infatti, la lampada ha venduto oltre 500.000 esemplari. Con il tempo, la famiglia Tolomeo si è arricchita di molteplici varianti, da quella a sospensione, a quella a parete, da terra, da esterno, nonché una versione maxi, che rende metaforicamente giustizia all’importanza nella storia del design di questo prodotto frugale.
“Sono partito dall’idea di congelare un istante che sembra creato dall’aria che scorre su una lamina sottile”, ha detto Ross Lovegrove a proposito di Cosmic Angel. Un lampadario che nasce da un’ispirazione poetica per confluire verso un’estetica biomorfa e al tempo stesso fortemente tecnologica: quella di un oggetto per un nuovo millennio, perfettamente a suo agio in un’estetica dai contorni futuristi.
Il design si caratterizza dalla presenza di due corpi illuminanti, due sassi levigati in alluminio pressofuso, sospesi a fili metallici che indirizzano la luce verso un ampio diffusore in metacrilato opalino. Grazie alla superficie testurizzata di quest’ultimo, la lampada si trasforma in una superficie cangiante, capace di ipnotizzare grazie al suo gioco di riflessi.
E se la luce, oltre che ad illuminare, servisse anche a far star bene le persone? C’è molta consapevolezza umanista, oltre che ingegneristica, alla base di questa lampada concepita da Carlotta de Bevilacqua, che incarna anche tutto lo spirito del progetto di ricerca Metamorfosi avviato da Artemide negli anni ’90. Grazie all’utilizzo di tre proiettori con filtri dicroici, e ad un attento studio degli effetti cognitivi del colore, le luci di Yang possono determinare 16 milioni di varianti cromatiche, tra cui il bianco, adattandosi alle preferenze emotive degli utilizzatori.
Il design della lampada cerca di mettere a nudo la sua innovazione, lasciando completamente a vista l’apparato tecnico grazie ad una scocca in metacrilato trasparente. I sei piedini in alluminio fissati alla scocca permettono invece di inclinare la lampada a piacimento, andando ancora più incontro alle esigenze individuali di quanti sono alla ricerca di una positività atmosferica ed ispirata. Un telecomando permette di accendere 10 tonalità luminose pre-programmate, o di memorizzarne altrettante tra quelle preferite.
Prendi Alexander Calder e trasformalo in una bellezza applicata, compagna di vita alle nostre attività tra le mura domestiche e gli spazi di lavoro. È lo spirito con cui Foster+Partners progetta una serie di lampade massimamente trasversali, adatte a tutte le esigenze di illuminazione del quotidiano. Dallo scultore americano, Ixa prende l’idea dei mobile, restituendola attraverso un sistema di contrappesi che includono una testa sferica, delle aste e dei contrappesi.
La testa, che può essere ruotata a 360 gradi per indirizzare la luce là dove ce n’è bisogno, è dotata di una connessione magnetica che separa i componenti elettrici dal meccanismo. I modelli disponibili includono modelli a sospensione e da parete con o senza doppio braccio, insieme a versioni da terra, da tavolo e spot.
È rimasta celebre la frase con cui Munari, in visita ad una fabbrica di calze, abbia proposto ai proprietari di mettersi a produrre lampade. “Noi non facciamo lampade, mi risposero. E io: vedrete che le farete”. Il resto è storia: ad un tubo di filanca per calze da donna, flessibile per definizione, vengono fissati sette anelli metallici di diametro diverso. La forza di gravità fa il resto, dando vita ad una lampada che è estensibile, e quindi facilmente trasportabile, ma anche eminentemente scultorea – ispirata, dopo un viaggio di Munari in Giappone, alla forma di un bambù.
È una lampada democratica, vogliamo ricordare, anche in virtù della sua accessibilità commerciale; un’ennesima dimostrazione munariana di quanto la semplicità, apparentemente banale nell’esperienza della forma, sia in realtà l’esito di una sintesi progettuale estremamente complessa. Lanciata da Danese nel 1964, Falkland fa parte del catalogo Artemide dal 2014.