Risultati
Nessun elemento trovato
Ricerca troppo corta
The destruction of memory
Il documentario di Tim Slade, presentato di recente al Milano Design Film Festival, indaga la “guerra culturale” che, nell’ultimo secolo, è diventata l’arma per distruggere l’identità di un popolo.
La totale distruzione di Aleppo, in Siria, e quella dei mausolei a Timbuktu, in Mali. Il crollo delle torri gemelle a New York e del ponte di Mostar in Bosnia. E, ancora, Dresda rasa al suolo nel 1945 e le pietre tombali armene medievali demolite durante il genocidio del 1915. Nell’ultimo secolo, la “guerra culturale”, ancora non riconosciuta come crimine contro l’umanità, ha portato a risultati dolorosi e catastrofici, diventando arma invincibile per distruggere l’identità di un popolo.
Su questo tema indaga The Destruction of Memory, il bel documentario diretto da Tim Slade nel 2015 e presentato durante il Milano Design Film Festival come piccola perla della rassegna. Il film, tratto dall’omonimo libro di Robert Bevan, ripercorrendo gli episodi più drammatici della nostra memoria, ha un grande potere, quello di ricordare storie di distruzione ma anche di coraggio e resistenza. Tante le immagini e i documenti originali, molte e diverse le voci intervistate, dal direttore generale dell’Unesco Irina Bokova al Procuratore capo della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda, 15 storici, esperti in giurisprudenza, architetti, come l’autore del Museo dell’olocausto di Berlino Daniel Libeskind. Ruolo fondamentale, infine, quello svolto dalle persone, soprattutto donne, che rischiando e, spesso, perdendo la vita, hanno cercato di proteggere quello che eravamo e, di conseguenza, ciò che saremo.
“La distruzione della memoria viene perpetrata non come danno collaterale, ma procurato solo ed esclusivamente per togliere un pezzo di civiltà, di una memoria costruita nel tempo”, risponde Andrea Kerbaker, scrittore e docente di Istituzioni e Politiche Culturali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che ha presentato il film in sala. “Prendersela con il patrimonio culturale è, infatti, un fattore del tutto nuovo. È vero, se si tratta di religione la distruzione dei monumenti e delle chiese è sempre stata all’ordine del giorno, ma ciò che è preoccupante è il lungo percorso che si va specializzando. Per citarne uno, l’esempio dell’archeologo Khaled al-Asaad che, catturato da un gruppo jihadista, si rifiutò di svelare dove fossero nascoste alcune opere d’arte. “L’altra considerazione importante”, prosegue il professor Kerbaker, “è il tema della ricostruzione. Non appena ci sono le possibilità, c’è un enorme desiderio di ricostruire l’identità perduta esattamene come era. Ad esempio, cosa si fa a Milano poco prima di ricostruire dopo la guerra? Il Teatro alla Scala: è un danno di guerra, ma prima ancora della città, Milano riparte dal suo teatro d’opera che è la vera identità della città”.
Da una parte la memoria, così astratta e immateriale, forse impossibile da cancellare, dall’altra l’architettura, così solida e concreta costituita da mattoni, pietre e cemento. Sembra quasi un paradosso. “L’architettura è da sempre depositaria della memoria. Per fortuna non ci volevano le distruzioni per dimostrarcelo. Dai tempi delle piramidi, da sempre, l’architettura è testimonianza delle tracce lasciate dall’uomo nella storia. Sbarazzarsene significa che non sono mai esistite, ricostruirle significa dire che ci sono sempre state”, conclude Andrea Kerbaker.
Da questo punto di vista, forse, qualcosa sta cambiando: per la prima volta la Corte Penale Internazionale ha emesso una sentenza di condanna per un crimine perpetrato contro monumenti storici, di valore simbolico e religioso, protetti dall’Unesco. Ahmad Al Mahdi Al Faqi, ex capo della polizia islamica del gruppo Ansar Dine, è stato giudicato colpevole di crimini di guerra per avere partecipato alla distruzione dei mausolei a Timbuktu nel nord del Mali nel 2012. Nel corso del procedimento, il primo del genere nella storia, l’uomo si era dichiarato colpevole.