Geoarchitettura. Verso un’architettura della responsabilità, Paolo Portoghesi, A cura di Maria Ercadi e Donatella Scatena, Skira, Milano 2005 (pp. 215, € 30,00)
Il tempo della notte del mondo – scriveva Martin Heidegger – è il tempo della povertà, perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza come mancanza. A causa di questo viene meno al mondo ogni fondamento “che fondi”, cioè il terreno su cui radicarsi e stare.
L’incipit di Paolo Portoghesi è una citazione di un allievo del filosofo tedesco, Hans Jonas, che rincara la dose: quando viene sottratto l’ostacolo contro il quale l’uomo mette in gioco la propria libertà, allora nasce la società della noia e dei rapporti disimpegnati. Una specie di tedio la cui via di uscita è poi una letale assenza di leggi che viene a sua volta elevata a virtù.
L’epoca cui manca il fondamento pende nell’abisso, continua Heidegger. Tuttavia, in genere, a questa epoca è ancora riservata una svolta. Ma per trovarla è necessario partire dall’abisso. Attenzione e apprendimento continui, poi, aiutano a cercare e a saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Questo nuovo libro di Portoghesi propone, per risalire “l’abisso” e trovare nuovo futuro umano in relazione all’ambiente terrestre, di partire dalle considerazioni di Caterina Resta. La portavoce della geofilosofia investe con forza il territorio dell’architettura: un’invisibile forza corrosiva pervade allora la Terra, non solo là dove più evidenti sono gli effetti del suo inaridirsi, ma proprio là dove più scintillanti appaiono a prima vista i monumenti che su di essa ogni giorno l’uomo non cessa di edificare. Deserto è dunque in primo luogo la metropoli, brulicante spazio di un’umanità che non ha più luogo, cui ormai è negato ogni vero abitare. Nomade ed erratico l’uomo della Modernità è colui che ovunque transita, senza più essere a casa da nessuna parte. La geofilosofia deve innanzitutto farsi sapienza del deserto, attraversarne tutti i miraggi, sopportarne la spaesante perdita d’orientamento, senza lasciarsi sedurre da impossibili ritorni indietro, che sarebbero fatali. Fino a pervenire a quel limite oltre il quale giungere in vista di un’altra terra. Così la Geoarchitettura (titolo di questo libro) fa eco a questa promessa di un ripensamento dei saperi e dei loro rapporti e al tentativo di dare un nuovo valore ai luoghi, alle regioni, agli equilibri e agli squilibri che consentono alla Terra il suo respiro cosmico.
L’architettura in questi ultimi tempi, sottolinea Portoghesi, è stata attraversata da un’ondata di caotica vitalità che genera allo stesso tempo ammirazione e disagio. Le grandi opere sono diventate popolari anche se ciò che esse comunicano non è di solito altro che la loro inedita struttura, la loro novità, la loro diversità, rispetto a tutto ciò che già esiste, una diversità ottenuta seguendo le leggi del messaggio pubblicitario, attraverso la sorpresa, il clamore, lo spaesamento.
Occorre, scrive Portoghesi, che l’architettura riconquisti la sua identità storica di disciplina al servizio della società e capace di aiutare l’umanità a prendere coscienza della responsabilità verso il futuro, rintracciando nel panorama mondiale quei frammenti ancora lontani da ogni possibile coagulazione. Questi frammenti, queste tracce sovente sono ben poco visibili e sono sempre il retaggio di un’indicazione appena presentita e il possibile collante è l’insegnamento della natura intesa come una totalità di cui l’uomo è parte integrante. Ma parlare della nascita di una nuova sensibilità, attenta alle ragioni e alle morfologie della natura non significa trattare di “architettura verde”, quella degli architetti sensibili all’ecologia ma priva di alcun “lievito ideologico” che possa essere riferito in modo esplicito al nuovo paradigma scientifico; non si tratta nemmeno di una ricerca di tipo formalistico sulla possibilità di realizzare strutture artificiali plasmate dal computer in base a modelli derivati dallo studio della natura con una sconcertante predilezione per le pieghe, le metamorfosi, gli sconvolgimenti. E, infine, non è certamente l’invocazione di un legame con la natura esteriore e imitativo. Si tratta piuttosto di risalire alle radici più profonde e segrete dell’esistenza umana: L. Battista Alberti indicava la semplicità della natura come l’esempio da seguire. In questo campo, come in tutti gli altri del resto, non meno di quanto è lodevole la sobrietà, è riprovevole la mania smodata di costruire (aedificandi libidinem, I, IX). L’idea di tornare a una “semplicità originaria” non era ingenua, antiscientifica, né fuori dalla realtà. La rinuncia può essere una soluzione anche di questi tempi.
L’arte è opera dell’uomo. È strano come spesso questa frase faccia venire in mente immagini della vita vegetale: gli alberi e le rocce t’insegneranno le cose che nessun maestro ti dà, predicava Bernardo da Chiaravalle; Le Corbusier nel 1936 consigliava ai giovani di darsi allo studio appassionato della ragione delle cose, alla scoperta del dominio insondabile delle ricchezze della natura. Là è veramente la lezione per l’architettura: la grazia, la leggerezza, l’esattezza, la realtà indiscutibile delle combinazioni. Dall’interno all’esterno: la serena perfezione. Arco, telaio, colonna e pilastro; l’albero, la foglia, il legno che diventa copertura. Pensa alla storia della pianta, diceva il poeta greco Dionigi Solomos.
Ma, secondo Portoghesi, c’è di più: l’architettura ha una responsabilità etica nei confronti della Terra. Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa Terra, scriveva Hölderlin. Parlare di abitare significa guardare al tratto fondamentale dell’esserci dell’uomo, cioè abitare, poetare, costruire. L’uomo con il suo abitare si rende certo in molti sensi meritevole. Egli infatti si prende cura (coltiva) delle cose che crescono sulla Terra. L’uomo tuttavia non coltiva soltanto ciò che si sviluppa da sé con una propria crescita, ma costruisce, edifica cose che non potrebbero nascere e sussistere con una crescita propria.
Nell’Abitare la Terra il costruire può tornare ad essere un abitare, nella misura in cui l’uomo assume la consapevolezza che i mondi che costruisce non possono prescindere dall’avere cura di essa. In questo senso l’architettura non viola e corrompe, ma quando è vera architettura dà senso e valore al paesaggio e il concetto di luogo trascende la definizione geografica e diventa spazio significativo delle relazioni fra uomo e ambiente.
Questo testo evidenzia quanto sia importante chiedere alla natura di aiutarci a riportare nell’ambiente in cui viviamo la segreta armonia estetica del mondo biologico, la sua capacità di comporre equilibri e squilibri, tranquillità e movimento, semplicità e complessità educando i sensi a ritrovare la profonda unità che tutto sottende. La parola ‘struttura’ non è più una parte scindibile dell’opera, ma una struttura che connette, una regola nascosta, misteriosa che si nasconde nell’essenza delle cose e ne dimostra l’armonia e la felice coesistenza (la sezione aurea è una struttura che connette).
In questo esercizio serio e faticoso storia, memoria, tradizione di tutti i popoli sono l’indispensabile nutrimento dell’immaginazione e del pensiero. La storia magnifica la dimensione del tempo e tende a sistemare i fatti in scatole chiuse e a dare un ordine. La memoria rimette in disordine, ignora i confini, è paratattica, è un magazzino dal quale è possibile attingere senza alcun ordine precostituito per scatenare un processo di associazione di idee e di immagini, una reazione a catena potenzialmente infinita. Ed è quella che inaspettatamente crea l’autore affiancando immagini analoghe ma diverse attinte dal mondo vegetale, dal mondo del microscopio, dal mondo dell’architettura. Sequenza molto efficace: i fiori e il concetto di centralità, gli alberi e il concetto della leggerezza, la nervatura delle foglie e la nervatura delle volte e così via. Terra, cielo, cristalli, conchiglie, impianti stellari sono i segni di una “iconografia inaudita”. Ognuno un fotogramma, un frammento che prende valore nella sequenza, forse solo in essa, che, poi, è una delle tante sequenze possibili di figure che si candidano alla costruzione del tema di architettura. Figure, spesso immagini di repertorio, tipi sedimentati nella memoria che avviano l’esercizio della ‘trascrizione’.
In questo pensiero architettonico antropologicamente fondato e tecnicamente preciso viene infine studiata l’integrazione continua fra le possibilità offerte dai materiali e l’adattamento di questi all’uso, fra adattamento all’uso e invenzione formale. Il materiale e la memoria del suo uso nella tradizione, la grande tradizione ininterrotta dell’architettura organica, il contatto con la memoria collettiva: F.L. Wright per esempio (e non nella parte più saccheggiata della sua eredità, ma nella sua nozione di spazio e nel rapporto materia-energia che si realizza nelle ultime opere), B. Taut al di fuori dei limiti stretti della tradizione organica, fertilissima tra i rami nella direzione di una architettura riconciliata con la natura. Michelangelo. E, ultimo ma non ultimo, grande protagonista nell’immaginario dell’autore di questo libro, Borromini. Parlare oggi di Borromini, scrive Portoghesi, significa riproporsi il problema della libertà delle regole imposte dal passato, significa distinguere tra regole obsolete e regole permanenti, ma soprattutto seguire un concetto di tradizione come libera ricerca di quanto nel patrimonio dell’umanità può ancora servire perché suscettibile di variazione.
Luisa Ferro Docente di Composizione architettonica al Politecnico di Milano