Giovanni Ponti, detto Gio, nasce a Milano il 18 novembre 1891 e nel capoluogo lombardo si laurea in architettura, presso il Regio Politecnico, nel 1921. Di lì a poco instaura con l’amico Emilio Lancia un lungo sodalizio, che lo porterà all’inaugurazione di un primo studio professionale in cui, per un breve periodo, Ponti sarà associato anche a Mino Fiocchi. Il legame con Lancia perseguirà fino al 1933, anno a cui risale la fondazione di un nuovo studio, condotto insieme agli ingegneri Eugenio Soncini e Antonio Fornaroli; nel 1945, Soncini lascerà per essere sostituito, sette anni più tardi, dal giovane architetto Alberto Rosselli, con il quale Ponti e Fornaroli resteranno fino alla prematura scomparsa di Rosselli (1976) e, di lì a poco, alla morte dello stesso Ponti, avvenuta a Milano il 16 settembre di tre anni dopo.
Gio Ponti
«L'industria è la maniera del XX secolo, è il suo modo di creare» (Gio Ponti, 1925)
Parallelamente all’avvio di questa intricata vicenda professionale in campo architettonico, Ponti si dedica ad approfondire il proprio interesse per l’arte (la pittura, in particolare) e l’artigianato, per poi esordire in qualità di designer grazie a un fortunato incontro con i dirigenti della Manifattura Ceramica Richard Ginori. L’azienda di Sesto Fiorentino, con cui Ponti lavora dal 1923 al 1930 rinnovandone radicalmente l’intera produzione, diventa il campo in cui coltivare la nascente passione per la ceramica, che lo accompagnerà lungo tutta la carriera. Sconfinando in interessanti riflessioni sull’applicazione di questo materiale al disegno delle facciate edilizie e dell’intera città, magistralmente riassunte nelle pagine di “Amate l’Architettura” (pubblicato nel 1957) e pienamente compiute in un’epoca – il secondo dopoguerra - in cui i canoni internazionali imponevano l’uso del cemento o la costruzione di infiniti curtain wall in vetro e acciaio. La produzione per la Richard Ginori è al contempo innovativa e tradizionale: piatti, vasi, piccole sculture da tavolo, sono realizzati con le più avanzate tecniche ma ispirati, da un lato, alla tradizione artigianale e, dall’altro, alle forme di antiche medaglie, urne e statue classiche, nonché popolati da sinuose figure ambientate in scenari dal vago retrogusto architettonico, accennati attraverso il disegno di colonnati, pergole o di intere basiliche (si pensi, per esempio, al celebre “Vaso delle donne e delle architetture”). L’impatto suscitato da queste prime opere è tale che, già nel 1923, il lavoro di Ponti per la Richard Ginori viene presentato alla Biennale di Arti Decorative di Monza, sulle riviste internazionali e, nel 1925, premiato con il Grand Prix alla parigina Exposition des Arts Décoratifs.
Di lì a poco Ponti dà vita, nel 1928, a una delle sue più longeve e riuscite creature: la rivista “Domus”, che nel giro di brevissimo lasso temporale s’impone come una tra le più importanti pubblicazioni dedicate al tema dell’abitare contemporaneo. Celeberrimo l’editoriale con cui viene presentata l’iniziativa: intitolato “La casa all’italiana”, è un vero e proprio manifesto del pensiero pontiano secondo cui arte, architettura, design si devono fondere per creare un ambiente che sia in grado di offrire non tanto il comfort inteso nella sua meccanica applicazione di standard dimensionali, che garantiscano il minimo spazio vitale, quanto invece il conforto necessario a nutrire anche l’anima dell’uomo moderno, così come insegna la tradizione classica italiana. Per questo, sulle pagine di Domus – il cui titolo è un chiaro rimando al felice archetipo individuato nella casa romana - trovano spazio le più disparate opere, che non devono necessariamente rispondere al criterio dell’aderenza al linguaggio internazionale per essere belle e, dunque, meritevoli di pubblicazione. Devono, invece, essere aderenti allo spirito della modernità, nelle sue molteplici declinazioni: non solo ville o abitazioni condominiali, ma anche ponti, fabbriche, infrastrutture elettriche sono belle perché moderne, esattamente come le opere di artisti particolarmente cari a Ponti, quali Fausto Melotti, Piero Fornasetti o Massimo Campigli.
In veste di direttore di Domus, poi, Ponti ha occasione di riconoscersi in importanti affinità intellettuali, spesso tramutatesi in amicizie personali, con alcuni dei più noti protagonisti del dibattito internazionale, di cui diviene un profondo conoscitore: tra gli altri Charles e Ray Eames o Bernard Rudofsky. A quest’ultimo, riconoscerà il merito di aver ispirato le riflessioni sul tema della mediterraneità, centrali in numerosi progetti realizzati fin dagli anni Trenta: «il Mediterraneo insegnò a Rudofsky, Rudofsky a me», appunterà su una delle più note pagine di “Aria d’Italia”. Le opere che appartengono a questa prima fase della vita professionale di Ponti, fortemente influenzate dai suoi legami con i membri di “Novecento” (tra gli altri, Massimo Bontempelli e Giovanni Muzio), includono i mobili della serie “Domus Nova” entranti in produzione per i Grandi Magazzini La Rinascente (1927), i vetri artistici per Christofle e Venini, la villa Bouilhet a Garches (1925-1926) e l’iconica Casa in via Randaccio (1924-1926), prima delle quattro abitazioni costruite e abitate con la sua famiglia: un concreto tentativo, in parte rinnegato dallo stesso Ponti negli anni Cinquanta, di rinnovare l’architettura tramite il ritorno alla misura di matrice umanista, ispirata – dirà Ponti – dalla «enorme impressione che ebbi vivendo, durante la guerra, nei periodi di riposo dal fronte, in edifici del Palladio, e con la possibilità di vederne più che potevo». Da qui derivano i molti elementi neoclassici (nicchie, urne, trabeazioni, timpani, dentellature, edicole) stagliati in maniera quasi ironica sulle facciate, che determinano lo spirito di «esuberante spensieratezza di decoratore» ravvisato da Ferdinando Reggiori nella figura del Ponti degli anni Venti.
Il decennio successivo vede l’architetto milanese attivamente coinvolto nell’organizzazione delle neonate Triennali di Milano, figlie della Biennale di Monza a cui aveva partecipato nel 1923, e nella promozione di un nuovo modello di qualità urbana, che passa attraverso la costruzione delle “case tipiche” o “domus”, realizzate in pochi ma significativi esemplari lungo le milanesi vie De Togni, Letizia, del Caravaggio. Concepite per essere replicate in serie, le Domus sono unità di quartiere ispirate al concetto di strada-giardino, grazie alla successione di spazi verdi che fanno da filtro tra ciascun edificio e la strada desinata alla circolazione. Un modello, di case in linea, in cui i diversi esemplari sono accomunati da invarianti quali balconi, terrazze, vetrate che – pur declinati autonomamente in ciascuno dei blocchi – riprendono caratteri consolidati della tradizione italiana perché, scriverà Ponti nel 1943 su “Stile”:
l'Italia non ha che la sua civiltà per salvare la sua civiltà
Dopo la profonda crisi seguita alla seconda guerra mondiale, Ponti diventa attivo protagonista del dibattito sulla ricostruzione, che affronta già nel 1944 con la pubblicazione di “Cifre parlanti” o, l’anno seguente, in “Verso la casa esatta”. Registra però poche occasioni di effettiva concretizzazione delle proprie teorie applicate al tema della casa collettiva: nel fervente panorama della costruzione di nuovi quartieri milanesi, ha modo infatti di firmare – insieme a Luigi Figini e Gino Pollini – solo lo straordinario insediamento sorto lungo le vie Harrar e Dessiè (1950-1955). È però tra i progettisti più richiesti dai grandi industriali, che gli affidano incarichi che vanno dall’ampliamento degli uffici della Montecatini (conclusi nel 1951), alla costruzione del Palazzo Montedoria (1964-1970). Insieme, ovviamente, a quella che è probabilmente la più nota e discussa opera pontiana costruita in patria: la nuova sede della Pirelli (1952-1961), eccezionale esempio di concordia d’intenti tra architetti (Ponti, con Fornaroli, Rosselli, Valtolina e Dell’Orto), ingegneri (Arturo Danusso e Pierluigi Nervi) e committenza, impegnati a costruire il modello italiano della tipologia architettonica moderna per eccellenza, ovvero il grattacielo. Un’opera poco amata da parte significativa della critica contemporanea italiana (ben nota, per esempio, la sprezzante definizione di Bruno Zevi del grattacielo come mobile bar ingigantito alla scala della città), ma universalmente riconosciuta come esemplare summa delle teorie relative all’integrazione tra arte e tecnica, alla diversa percezione dell’architettura di giorno e di notte, alla forma finita.
Grazie alla fama raggiunta oltralpe e oltreoceano con il Pirelli, si moltiplicano da qui in poi gli incarichi che Ponti ottiene all’estero, tra cui si annoverano numerose case all’italiana: la celebre villa Planchart a Caracas (1955-1955), oggi perfettamente conservata anche nei propri interni, o le più sfortunate Arreazza (1954-1958, di nuovo nella capitale venezuelana) e villa Nemazee a Teheran (1957-1964), che oggi – dopo anni di incuria e abbandono – rischia di essere rasa al suolo, nonostante la ferrea opposizione di numerose associazioni sorte in sua difesa.
Agli anni Cinquanta risalgono anche le prime sperimentazioni sul tema della chiesa, che raggiungerà il culmine alla conclusione della lunghissima carriera di Ponti: l’ultima, importante opera da lui firmata è, infatti, la Concattedrale di Taranto (1967-1970), in cui il tema della finestra sul cielo – ovvero di quei poderosi tagli diamantati, che inquadrano porzioni d’azzurro – già affrontato con la chiesa milanese di San Francesco d’Assisi al Fopponino (1958-1964), si trasforma in un incantevole ricamo cesellato di «finestre aperte sull'immenso, che è la dimensione del mistero». Insieme alla chiesa tarantina, il Denver Art Museum in Colorado, compiuto nel 1971. Da segnalare infine che, dal 1936 al 1961, Ponti è stato professore alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Attraverso le parole di Fulvio Irace:
Nessuno meglio di lui infatti seppe riassumere lo spirito di Milano, distillarne gli umori e farne lievitare le aspirazioni alla modernità, incanalandone al tempo stesso le ambizioni della migliore borghesia verso un’autenticità di espressione che non sarebbe mai più stata raggiunta negli anni a venire dopo la sua morte nella casa di via Dezza. “Milano moderna” fu lo slogan che sintetizzò la sua impaziente ricerca di una civiltà tecnica come espressione di una civiltà di costumi, in un’equiparazione sostanziale tra modernità e sincerità espressiva, cui attribuì sempre il significato di una rivoluzione che partiva dal basso: dall’accettazione individuale, prima ancora che di massa o di classe, di quelli che, prima di lui, Giuseppe Pagano aveva definito i ”benefici dell’architettura moderna
- 1891-1978
- architetto, designer, artista