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Pubblicato in origine su Domus 272 / luglio 1952
Favola americana
Le fotografie di queste pagine interessano gli italiani come documento americano e il loro commento in queste pagine può interessare gli americani come un'impressione italiana, da quel punto di vista di paesaggio e di costume e di "pittoresco del mondo" che viene assunto da Domus di fronte all'architettura come "meraviglioso", come "favoloso", come spettacolo, sintomo, storia , e come costume, e come leggenda. Noi stessi si voleva intitolare queste pagine, "panorama americano", "racconto americano", "leggenda americana". In fondo è la stessa cosa, sono tante espressioni di uno stesso punto di vista.
Come le favole, le leggende, i racconti evocano qualcosa di fatato v'è un che di immaginario per noi in quest'America che pur esiste, che pure è, ma che tuttavia ci siamo immaginata anche da noi, a nostro modo, e diversa dal vero (o più vera di essa); quest'America U.S.A., vicina e lontana, dalla quale quelli che ci sono stati portano messaggi e notizie disparate, chi per il si chi per il no, quest'America U.S .A. dove ci si ritrova tutti insieme noi europei, e dove pure la cosa è tutta diversa. Mai la storia del mondo è stata tanto ipotetica. Cosa è l'Inghilterra adesso? Cosa la Francia? Cosa la Russia? Cosa la Cina e le nazioni delle Indie e quelle dell'Arabia? Cosa il Giappone? Cosa è l'Africa bianca e nera? Cosa è l'America?
In queste pagine l'America "si narra" attraverso le ultime architetture, ultime avventure architettoniche, (si sarebbe tentati di parlare ancora e sempre di pionierismo – stilistico – negli edifici delle Nazioni Unite e della Lever Brothers Company – e geografico - nella scuola e nell'ospedale nel deserto).
Case alte, torri, grattacieli non occultano il cielo, ma lo captano e "lo tirano giù), ce lo portano giù, ce lo avvicinano; una città futura fatta così sarà celeste più che terrestre, e sulle superfici di argento si muoverà il cielo, si rispecchierà nel correr delle sue nuvole, e albe e tramonti si moltiplicheranno infinitamente. Questa architettura innamora: è di una ritrovata purezza e grandezza, come si vede nel paragone drammatico di quelle che le sono vicine, – di un a Nuova York vecchissima e decrepita – architetture umane o animali, come vespa, mentre questa (come i monumenti, come le piramidi, i circhi, le alte cupole, le torri) è figlia della mente, è minerale e geometrica.
Il palazzo, – il "monumento" delle Nazioni Unite – (dire palazzo è sbagliato, dire edificio è esatto, dire monumento è meglio) è chiuso ai fianchi sottili da un muro chiuso la cui dimensione diviene muralmente paradossale. Questa è forse la sua bellezza maggiore, ché il muro chiuso provoca l'emozione della parete a vetri e le dà la misura: il gioco del vuoto e del pieno è ridotto a due elementi totali, giustapposti, non mischiati. La Lever House è tutta di vetro e non ha limiti né chiusura, è una casa, non è un monumento; è empirica, non ha principio né fine, sarà ingoiata dalla storia come gli altri edifici della rapidamente decrepita New York, quando tante case saranno così.
Badate, i due edifici, che qualcuno direbbe si somigliano, sono differentissimi, sono agli antipodi. Ma tutte queste cose che rendono belle queste pagine si somigliano nella favola americana
Questo deserto, così abitato, deserto non è più; è un nuovo pittoresco nel mondo, (come lo sono le montagne che sono deserte e non sono deserti). Siamo nella "fantasia della natura" che l'uomo ha capito e penetra. Sta per morire, con la fine del folklore, la fantasia del costume, – fantasia umana della storia – e l'uomo intuisce ora quella della natura, e la avvicina e capta con strumenti architettonici altrettanto puri e rigorosi come il palazzo delle Nazioni Unite. Una favola bellissima ci raccontano tutti questi edifìci, una favola generosa e pulita, la favola d'unordine d'una bellezza possibili, la favola di una profezia incantevole, la favola dei bei sogni ottimistici dell'uomo, la favola del Bene senza il Male.
Gio Ponti