In un’epoca in cui società di pubbliche relazioni di livello mondiale contribuiscono a portare fuori strada gli Stati africani e il gusto (nonché la paura) delle bufale fa sì che i giganti di Internet impongano i loro contenuti in modo martellante, Lagos, secondo i criteri della società Mercer, è compresa tra le 27 città con la peggior qualità della vita.
Lagos in bancarotta?
Una riflessione, a partire dalla capitale nigeriana Lagos, sulla ragione per cui le economie a progetto e altri pragmatici progressi africani spesso appaiono caotici al mondo.
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- Domus Africa Study Centre
- 20 luglio 2017
- Lagos
Quando le città africane compaiono in queste liste di solito si ritrovano accanto a città che patiscono invasioni e guerre. È facile dimenticare che quasi tutte le città africane sono state dei campi di detenzione creati nel quadro dell’invasione e dell’occupazione coloniale. Allo scopo di saccheggiare con efficienza le risorse gli invasori non facevano che presidiare con delle guarnigioni gli insediamenti tradizionali prossimi a una miniera o a un pozzo petrolifero, a una piantagione, a un porto.
Garantire la qualità della vita in città simili, a pochi decenni dall’autoemancipazione dai loro cinici e impenitenti predatori, è come garantire il progresso della Siberia a pochi decenni da Stalin, o riuscire a controllare la condizione mentale di chi, fino a ieri, avesse alimentato le riserve e il sistema energetico di Matrix. Solo il più imbecille o il più ingenuo dei commentatori metterebbe a confronto il tasso di sviluppo di Chernobyl con quello di Helsinki; e allora occorre trovare criteri adeguati di recupero, di progresso e di autonomia sperimentati e certificati, prima che chiunque possa esprimere un giudizio sulle città africane senza apparire avido o stupido.
Lagos si è attirata più cattiva fama di quanto non meriti il suo reale tasso di degrado: stigmatizzata come la città più caotica del mondo, scalzata solo da Karachi dall’ultima posizione dell’influente e ragionato Cities in Motion Index dell’IESE. Fa evidentemente da capro espiatorio, concentrando in sé tutti i mali e le patologie conclamate che minacciano qualunque città del mondo. Un po’ come se qualunque città potesse continuare fiduciosamente a procedere a occhi chiusi verso il suo personale futuro finché crede che Lagos sia molto peggio. I criteri importanti per una buona città forse iniziano osservando ciò che essa fornisce alla comunità: all’uso di tutti.
Sotto questo aspetto le città transazionali privatizzate come New York danno poco, dato che i benefici del loro principale filone economico – la finanza – vengono costantemente privatizzati, mentre i rischi e le perdite svelati dalla crisi del 2008 sono stati istantaneamente condivisi con la società sotto forma di esternalità che il contribuente ha dovuto pagare attraverso il sussidio statale alle banche. Mentre le retribuzioni reali, l’accesso alle opportunità e quindi la mobilità sociale in America continuano a diminuire dalla metà degli anni Settanta, Lagos offre ai suoi abitanti uno dei più alti livelli di partecipazione economica generale. Il mercato che favorisce questa situazione non è certo quello della City londinese, di Wall Street o di Silicon Valley, fitto di esperti e accessibile solo dopo una formazione costosa e non garantita che offre competenze deteriorabili.
La città di Lagos è un mercato informale caratterizzato dall’assenza di nodi istituzionali che lo regolino o lo stimolino. In senso letterale si tratta di un modello di libero mercato che, dal punto di vista teorico, è più completo di quello di gran lunga più complesso e stratificato creato istituzionalmente dal Partito Comunista per la Cina contemporanea. In ogni caso il tratto più interessante del mercato di Lagos non sta tanto nella sua qualità informale o nella sua accessibilità aperta a tutti, quanto nel suo funzionare secondo una futuristica modalità di rete di reti. Grazie a reti tanto pervasive Latour e Boltanski ci assicurano la possibilità del varo di un’economia a progetto ai minimi costi di transazione possibili.
Se è vero che le economie di progetto intuiscono in quali punti il capitalismo globale cerchi di rigenerarsi sulla base dell’innovazione e di nuovi, elastici modi di estrazione di valore, facilmente smobilitabili e a breve termine, Lagos allora non è tanto il “futuro di Roma” profetizzato da Koolhaas quanto il futuro di qualunque metropoli capitalista. Oggi Lagos si è messa in gioco a pochi, brevi decenni di rivolgimenti dalla sua liberazione, e ha superato gran parte dell’esclusione dei suoi cittadini dalla partecipazione economica che ancora affligge le città coloniali, le città che si risollevano dalla guerra e le città dell’Occidente sconvolte dalla disoccupazione cronica e dalla gig-economy, l’“economia a chiamata”.
Il suo disprezzo delle intuizioni e delle regolamentazioni in favore dell’onnipresente norma degli affari la fa apparire come un insieme di associazioni strettamente collegate che sostituiscono i fattori di coesione dello Stato, del mercato nazionale e dell’ipotetica comunità della nazione con la varietà degli usi creativi della città, posseduta come bene comune – virtualmente se non legalmente – dai cittadini. Ovviamente ci sono alcune questioni comunitarie come la qualità dell’ambiente e la salute pubblica che costituiscono rischi gestiti con la migliore efficienza possibile da istituzioni centralizzate, ma anche questi pericoli condivisi non sono al di là della portata dell’autogestione di una comunità libertaria o di una società fondata sulla cooperazione e sull’associazione.
Sarebbe cinico affermare che ogni città africana, liberatasi così di recente e in genere in modo incompleto degli antichi invasori, costituisca un’utopia o in generale un esempio, ma a differenza della maggior parte delle città occidentali o di imitazione occidentale, che funzionano grazie allo slancio dei traguardi raggiunti nel passato, le città africane non si sottraggono alla pressione del cambiamento, hanno poche aree di compensazione e non hanno alcuna spinta se non quella che riescono a generare da se stesse e a difendere il più a lungo possibile dalla nuova colonizzazione culturale o dalla strategia del sussidio, che conduce inevitabilmente all’indebitamento. Le città africane sono quindi costrette a sperimentare con audacia e immediatamente nuove idee e nuove soluzioni che sono continuamente pronte a rivedere, a revocare e a sostituire. Spesso sopravvivono, alla lettera, grazie alle loro capacità inventive e consolidano il risultato con il loro talento per la riprogettazione pressoché istantanea.
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