Nel 1958, tredici anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, intere città d'Europa, da entrambi i lati della Cortina di Ferro, vengono ricostruite dalle macerie, oppure semplicemente dal nulla, per dare alloggio ai cittadini che costruiranno un vecchio continente nuovo di zecca. Gli Arpel, come molte altre famiglie dell'alta borghesia del XX secolo, riempiono le case, le fabbriche e gli edifici pubblici con gli utensili e gli apparecchi progettati allo scopo di rendere la vita più facile, più pulita, più sana e più efficiente. Ma, a quanto pare, Hulot ha qualche problema con le "cose così". A bordo di un ciclomotore VeloSoleX va dal suo malridotto condominio che dà su una piazza della città vecchia fino alla villa della sorella, tra vie sconnesse, carretti a cavalli e venditori ambulanti, ma anche tra strade ricoperte di auto irritantemente lente e bambini maleducati. Nel tragitto, sconvolge il traffico, rompe il bicchiere che non rimbalza, fa salsicce di un tubo di gomma, butta l'accendisigari fuori dal finestrino e ribalta il divano verde a forma di fagiolo della sorella per dormirci sopra. Nessun luogo, nessun oggetto e nessuna persona intorno a lui sembrano permettere alternative d'uso o d'opinione, ogni volta che interagisce con il mondo moderno le cose vanno tremendamente storte.
Jacques Tati, regista di Mon oncle e protagonista sotto il cappello di Monsieur Hulot, prese le gag del suo umoristico e silenzioso film dal cinema muto, trasportandole al presente degli anni Cinquanta per svelare come le persone interagivano e interferivano con il loro ambiente di recente progettazione. È questo ciò che fa di Mon oncle e di Playtime, il capolavoro di Tati del 1967, che parla della vita moderna su scala esponenzialmente maggiore, due film essenziali tanto per i designer quanto per gli architetti. La flânerie comica di Tati infatti va oltre l'osservazione diffidente ma distaccata della modernità così come veniva esaltata dagli autori ottocenteschi: il suo è un concreto uso critico degli artefatti di questa modernità. Togliendo agli oggetti la funzione per cui sono stati progettati e assegnando loro una parte comica, Tati non crea solo una satira ilare e indimenticabile: commenta un mondo cui lui, e altri come lui, paiono non adattarsi.
Jacques Tati progettò questo mondo in collaborazione con il pittore e arredatore Jacques Lagrange, che collaborò anche alla scenografia, alla direzione artistica e alla sceneggiatura di quattro dei suoi film. Girando Mon oncle nella zona storica di Saint-Maur-des-Fossés e nella vicina Créteil (all'epoca città in piena costruzione, oggi grande area della banlieue parigina), costruirono Villa Arpel in studio dopo aver setacciato ritagli di riviste in cerca delle ultime tendenze del design e dell'architettura. Ogni componente della casa fu realizzato o scelto in funzione dell'effetto scenico e non della funzionalità e del comfort. Mentre tra i mobili c'erano prodotti reali (applique di Serge Mouille, sedie Scoubidou in tubo d'acciaio e filo di plastica dell'A.R.P. Atelier de Recherche Plastique, il vaso Dubrocq di Pol Chambost) altri non erano che oggetti di scena moderni. Il divano verde a forma di fagiolo, per esempio, è fatto di quattro pezzi distinti che nel corso del film stabiliscono vari rapporti di scala e di interazione con gli attori.
Dalla prima di Mon oncle nella Parigi del 1958 alla giornata di domani, 10 maggio 2012, sono cambiate molte cose. Come Hulot anche la Francia, all'epoca uno dei principali motori del miracolo sociale, economico e politico dell'Europa del dopoguerra, ha dei problemi. Le recenti elezioni presidenziali hanno rivelato un Paese stanco di ideologie e di cambiamenti, riluttante all'immigrazione e alla globalizzazione, incerto del suo ruolo in un continente in crisi e in un mondo che appare sconvolgente perfino per lo zio di Gérard. Gli uomini e le donne della generazione di Gérard, i loro figli e i figli dei loro figli oggi nutrono per il loro futuro più disillusione che speranza. Per loro, nulla dura più per sempre. Neppure il sogno del progresso.
E tuttavia, rivedendo Mon oncle dopo tutti questi anni, si resta colpiti dalle scale a sbalzo, dalle sedie di tubo d'acciaio, dal sugo della bistecca, dal gusto aerodinamico delle auto, dalle insegne in corsivo della fabbrica/scuola. Il moderno mondo iperprogettato degli Arpel ci fa provare nostalgia per un passato lontano. Possiamo cercare di ricrearlo circondandoci di pezzi "di modernariato", scegliendo tra le versioni originali, le costose riedizioni o le copie da pochi soldi. Oppure visitando, e venerando, gli edifici, i quartieri e le città costruiti all'epoca. Quelli che vale la pena di ammirare, voglio dire: certi esperimenti di architetti e designer, spesso troppo affezionati alla forma o troppo insensibili al contesto o alle conseguenze dei loro atti, hanno indotto a equivoci progettuali che le generazioni seguenti hanno dovuto correggere o abbandonare. Se solo ci fosse un Monsieur Hulot a fare la critica delle loro opere…
Con grande intuito (e svagata vivacità), Hulot sfugge al progetto di vita moderna di sua sorella e finisce all'aeroporto di Orly. Mentre in questa scena finale si comprende che la sua funzione principale nel film è semplicemente quella di riavvicinare un padre al figlio, capiamo anche che non è solo nei progetti, negli edifici e tra gli oggetti di questo moderno passato (o in ciò che resta di essi) che vogliamo vivere. Dopo tutto, la nostra storia comune e le nostre storie personali si sono anch'esse stratificate negli edifici, nelle strade e nelle piazze secolari in cui continuiamo a vivere, a lavorare, a studiare e a innamorarci. Lo scopo di Monsieur Hulot forse è solo farci capire che ciò che resta può essere importante quanto, o più, di ciò che si progetta.