Mai come ora, in questo periodo in cui siamo così concentrati su ciò che è locale, ci sembra importante la sensazione di essere connessi e sostenuti. Il 2020 ha portato molte cose, la maggior parte delle quali inaspettate e indesiderate, ma l'attenzione sul luogo dove viviamo sta al cuore di ciò che ci è stato consegnato da questo momento introspettivo. Mai prima d'ora siamo stati costretti a immergerci nelle nostre comunità e a sollevare il velo su ciò che costituisce veramente i nostri quartieri. L'interconnessione tra il progetto delle nostre città e la felicità dei residenti è un racconto che conosciamo bene, ed è proprio la focalizzazione sulla salute e sulla prosperità che ha portato all'importante narrazione del “quartiere dei 20 minuti”. Partito da Portland, negli Stati Uniti, si sta facendo strada nella pianificazione strategica delle città sia in Australia sia nel Regno Unito, e consiste nella creazione, deliberata e misurata, di aree zonali che assicurino ai residenti di avere entro venti minuti a piedi da casa tutto ciò di cui c’è bisogno per vivere, per lavorare, per divertirsi.
I luoghi in cui viviamo hanno un impatto diretto sulla nostra salute – che sia l'interno, l'esterno o la miriade di spazi che collegano tra loro gli elementi. Un buon design urbano è sia il canale di collegamento tra ciascuna delle parti che lo compongono, sia la base per incoraggiare il movimento, l'interazione sociale e lo sviluppo della comunità. La sensazione di essere in una città a misura d'uomo è chiara: fare le cose appare semplice, mai opprimente, e stare al suo interno è confortante. Quando manca invece una progettazione, sono le persone a soffrirne. Il districarsi degli impulsi psicologici necessari per creare e promuovere esperienze multisensoriali è alla base dei punti chiave delle filosofie del quartiere dei 20 minuti, e incoraggia la progettazione per le persone, non l'architettura per gli architetti.
Fulcro del movimento è la creazione di un design urbano di qualità che si basa sul verde. La chiave è l'accesso a spazi sicuri, rispettosi del territorio e diversificati, che incoraggiano le diverse interazioni all'interno di un quartiere. Originariamente coniata a Portland, come “Portland Plan”, l'iniziativa si collega al piano climatico della città dell’Oregon, per cui entro il 2030 il 90% degli abitanti potrà facilmente raggiungere da casa, a piedi o in bicicletta, qualsiasi servizio necessario nel giro di una ventina di minuti. Il Portland Plan è stato incentrato sulla promozione della prosperità, sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, e sul fare in modo che istruzione, salute ed equità ne traggano benefici. Il “Piano Melbourne 2017-50” di Melbourne, in Australia, è una simile strategia di pianificazione a lungo termine, attraverso cui rendere più sfumata la tradizionale separazione tra vita privata e lavoro, avvicinandoli tra loro. Attraverso il decentramento della città come principale centro di servizi e di lavoro, e come spazio di collegamento sociale, ogni quartiere viene messo in grado in grado di incoraggiare la mobilità attiva, ospitare abitazioni di tipo diverso, fornire alloggi a prezzi accessibili, fornendo campi da gioco, scuole, ospedali, negozi di vendita al dettaglio e garantendo l'accesso alle strutture sportive e ricreative. Entrambe le metodologie sono incentrate sulla creazione di comunità sane, mettendo l’attenzione sulla salute dei loro residenti.
L'architetto danese Jan Gehl da sempre è in prima linea nel sostenere che la vita che passiamo tra gli edifici abbia la stessa se non maggiore importanza degli edifici stessi, e a quella che chiama “vita tra gli edifici” ha anche dedicato un fondamentale testo (in italiano Vita in città, 2012). Dopo aver studiato a fondo i comportamenti delle persone, sia dal punto di vista progettuale, sia psicologico, all'inizio della sua carriera in Italia, Gehl è passato a criticare la formazione architettonica, secondo lui eccessivamente isolata e incentrata sulla scultura. Sostiene con passione che la vita tra gli edifici è una dimensione a sé stante e che lo studio delle persone e delle loro esigenze deve essere parte integrante di ogni progetto. Come City Architect di Copenhagen ha promosso l'attivazione, la connessione e la vivificazione degli spazi pubblici, a testimone della sua etica e di quella dei quartieri dei 20 minuti. Concentrandosi prima di tutto sulle persone, Gehl sostiene che l'architettura sia l'interazione tra forma e vita, non un fermo immagine o una scultura, e che nell’architettura debba esserci la responsabilità di considerare non solo l'aspetto di una cosa, ma anche il modo in cui essa giunge e si aggiunge a una città. Il suo approccio vede le tante parti che compongono un quartiere, quindi, nella stessa considerazione degli spazi che li collegano, dove tutte le parti dell'intero lavorano all'unisono, non in competizione, con l'obiettivo comune di migliorare la vita delle persone.
Al cuore del concetto di quartiere dei 20 minuti ci sono cinque principi fondamentali: la connessione, la comunità, la località, la salute e la crescita. Dando alle persone e alle loro esigenze un ruolo primario, sarà intenzione di tutti i progettisti considerare gli effetti psicologici che derivano non dal semplice sentirsi connessi, ma dell’essere connessi adeguatamente attraverso servizi, spazi verdi e opportunità di muoversi attivamente a piedi. Mi trovo in questo momento a Melbourne, dove è in corso il secondo lockdown di quest'anno, e siamo limitati nel movimento a un raggio di cinque chilometri dalle nostre case, ovvero una distanza vicina a quella dei quartieri dei 20 minuti. In molti casi sono i nostri quartieri a contenerci, a sostenerci, a offrirci posti per fare esercizio e rifornirci. Ed è proprio oggi che quartieri collegati e pianificati con successo fanno la differenza. L'impiego delle iniziative dei quartieri dei 20 minuti non limiterebbe il movimento oltre i limiti, ma si concentrerebbe sul miglioramento del tessuto che li comprende e li sostiene. Ci sono molti scenari peggiori che concentrarsi all'interno di un quartiere e creare una vita comunitaria e sanitaria dove le persone sono al primo posto, e dopo quello che abbiamo imparato quest'anno, questo potrebbe essere proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno.