PlayStation: come una console ha cambiato il XXI secolo

Playstation compie 30 anni: entrata a fare parte dell’immaginario globale, coinvolgendo arte, design e cultura, si è trasformata nella metafora di un millennio in cui tutti siamo giocatori.

Gran Turismo è un videogioco del 1997, capostipite di una serie che ha venduto decine di milioni di copie, più di 90. Da solo quel primo gioco ne vende circa 10 milioni, circa quante la console su cui gira, la prima Playstation. Moltiplica per tre il numero di acquisti della diretta concorrente, la Nintendo 64, e comunque a quella cifra ci arrivi solo arrotondando per eccesso: la prima Playstation è stata un successo incredibile, nata proprio da una collaborazione finita male con Nintendo. E Gran Turismo dagli anni ’90 è il simulatore di corse per eccellenza. 
 


Nel catalogo della prima Playstation debuttano tante serie che diventeranno non solo campioni d’incassi, ma veri e propri riferimenti culturali: Metal Gear Solid e Resident Evil, ma anche Gta e Tomb Raider. Quest’ultimo fece un tale botto che Lara Croft appariva nei visual del Popmart Tour del 1997, quando gli U2 potevano ancora considerarsi la rock band più rilevante del pianeta.

Lara Croft from Tomb Raider

Playstation: un prodotto di design e innovazione

La prima PlayStation debutta in Giappone in tempo per il Natale del 1994, nei primi giorni di dicembre. Arriverà negli Usa e in Europa solo l’anno successivo. È il prodotto Sony più famoso di sempre insieme al Walkman; rispetto a questo, il suo design ha un impatto estetico meno smaccato, con forme che rielaborano il minimalismo tutto cerchi e rettangoli della Braun in era Dieter Rams, con degli stondamenti tipici degli anni ’90 e una colorazione di un grigio chiaro futuristico e quasi metabolista: un dispositivo dalle forme compatte e di rara eleganza, soprattutto se affiancato a quei baracconi che sono le console da gioco di oggi. E poi la rivoluzione: niente più cartucce, ma Cd-Rom. Inutile dire che la possibilità di piratare i giochi ha contribuito alla sua popolarità. 

Final Fantasy VII: il gaming diventa per adulti

L’arrivo della PlayStation è una rivoluzione che cambia gli standard dell’intrattenimento. Per capirlo, basta Final Fantasy VII, probabilmente il singolo titolo con il più alto seguito nostalgico della storia dei videogiochi. Fino a quel punto, la saga di Final Fantasy, una serie di giochi di ruolo giapponesi, era stata una esclusiva delle console Nintendo, dove aveva portato una densità di storytelling e temi inusualmente seri per quelli che erano, dopo tutto, giochi di massa e targettizzati su una utenza familiare. 

La PlayStation non era un gioco per bambini. L’idea era di venderla a un pubblico di tardoadelescenti e ventenni.
Final Fantasy VII

Final Fantasy 7 invece è totalmente anni ’90 e quindi clamorosamente serio e intenso, ricama su quelli che oggi sappiamo essere i leitmotiv di quegli anni - la ribellione, l’individualità, l’ecologia, uno spirito neo-luddista e anticorporativo - sfruttando a pieno la grande innovazione tecnologica della PlayStation, del Nintendo 64 e delle console della loro generazione: l’utilizzo della grafica 3D. Ma Sony sfrutta l’innovazione per sovvertire le basi morali del videogioco, trasformandolo per la prima volta in un medium per adulti. La morte di uno dei personaggi principali di Final Fantasy a metà del gioco è uno shock che ha sconvolto una generazione di giocatori. Sul Super Nintendo una cosa del genere non era mai successa. 

La nascita delle narrazioni complesse

La PlayStation non era un gioco per bambini. L’idea era di venderla a un pubblico di tardoadelescenti e ventenni. Una generazione che per prima intende il videogioco come un medium serio, qualcosa di inconcepibile per chi veniva prima. Una realtà ribadita da studiosi come Ian Bogost e Jesper Juul, dai saggi del padre della Generazione X, Douglas Coupland, e romanzi come il popolarissimo e recente Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow di Gabrielle Zevin. La PlayStation si è evoluta negli anni, ora siamo alla quinta generazione, ma il solco era chiaro fin dall’inizio, con una identità in cui al marchio di videogiochi Sony vengono legaati titoli mainstream di grande impatto culturale come Last of Us (diventato anche una bella serie Hbo), Horizon Zero Dawn, il reboot di God of War o la complessa e visionaria serie Metal Gear Solid. Il mastermind di quest’ultima, Hideo Kojima, l’unica vera star del mondo dei videogiochi, con Death Stranding nel 2019 ha creato una incredibile opera di speculazione critica sul presente: anche quel gioco, che ha coinvolto grandi attori come Norman Reedus, Mads Mikkelsen e Léa Seydoux, è uscito come esclusiva Playstation. 
 


Death Stranding
ha una grande colonna sonora monopolizzata da un artista indipendente che non c’è più, Low Roar: la vicinanza tra PlayStation e la musica è tale che per il lancio della prima console venivano allestite postazioni nei club del Regno Unito dove provarla. WipEout, gioco culto  uscito nel 1995 di corse futuristiche dal ritmo sfrenato, aveva una colonna sonora che includeva il meglio della nuova scena britannica dell’elettronica Chemical Brothers, Underworld, Prodigy e Orbital. 

Da WipEout a Tom Sachs: l’impatto visivo di Playstation

L’identità grafica di WipEout attingeva pienamente dal cyberpunk e dalla cultura tecno e rave di quegli anni, dall’arte di avanguardia e dalla pubblicità, e porta la firma di The Designers Republic, lo studio di Ian Anderson che ha disegnato anche tante cover per l’etichetta di musica elettronica Warp, una per tutte Come to Daddy di Aphex Twin. Inutile dire che una intera generazione si è appassionata alla grafica grazie a quel gioco e a quei dischi. 

Ma non si ferma certo qui la commistione tra arti visive e videogioco: un grande artista come Tom Sachs ha utilizzato Grand Theft Auto come parte delle sue opere – Delinquency Chamber, presentato alla vecchia fondazione Prada nel 2006 –, oltre ad avere definito il gioco come “la più importante opera d’arte dei nostri tempi”. Mostre come “Radical Gaming” curata da Boris Magini, e “Worldbuilding”, un progetto dell’onnipresente Hans Ulrich Obrist, hanno mostrato recentemente tutto il potenziale dell’utilizzo del videogioco come forma d’arte. 

La Playstation è stata la prima console di gioco a meritare un posto nella zona living delle case, riscattandola dalle stanze dei figli e delle figlie.
La mostra Delinquency Chamber di Tom Sachs alla Fondazione Prada nel 2006. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Danielle Brathwaite-Shirley si ispira esplicitamente alle soluzioni grafiche oggi “retro” delle console come la prima PlayStation, facendo anche un gran lavoro di memoria su titoli oscuri o parzialmente dimenticati del passato. I video di Mirai, ispirati alle grafiche della Playstation originale, sono diventati un caso su Instagram. Silent Hill (1999), Shadow of the Colossus (2005) e Journey (2012), tutti usciti come esclusive PlayStation, sono stati citati più volte quando si osserva quanto labile sia il confine che separa il videogioco, anche quello mainstream, dall’opera d’arte. 

Playstation come metafora della gamificazione della realtà

Tutto questo non è ovviamente merito della Playstation. Ma la Playstation è stata la prima console di gioco a meritare un posto nella zona living delle case, riscattandola dalle stanze dei figli e delle figlie. Questo grazie all’estetica innovativa e anche per la capacità di suonare musica e riprodurre film, diventando così un hub multimediale ben prima che le tv si chiamassero “smart”. I videogiochi sono diventati così meno lontani dalle altre forme di consumo culturale, una cosa che spiega bene lo studioso australiano McKenzie Wark in Gamer Theory
 


Wark appartiene a quella schiera di teorici che hanno analizzato il rapporto tra i videogiochi e il sistema economico e sociale del nuovo millennio, individuando nel gamer – il giocatore – una metafora dell’epoca digitale e dell’ipercapitalismo di oggi: i videogiochi, che apparentemente rappresentano un escapismo, sono diventati lo specchio di una società che costruisce le sue realtà attraverso media, tecnologia e cultura. Non sono più una via di fuga, sono la rappresentazione lucida del nostro orizzonte di vita. It’s the gamification, baby: siamo tutti giocatori. 

Questa è la “influential idea”, come la definisce Alfie Bown, scrittore e critico britannico, nell’introduzione di The Playstation Dreamworld, un saggio “lacaniano” sul gaming e i suoi esiti, che “it is less a question of games becoming like reality but of reality becoming like games”: la realtà che è diventata come i giochi e non viceversa. Il mondo in cui viviamo non è per nulla simile a quello di trent’anni fa.  Di sicuro non è “colpa” della Playstation, che però resta uno spartiacque, un simbolo, e anche un mezzo per ridurre quello che viviamo a qualcosa di comprensibile. La Playstation non ha mai voluto spiegare il mondo. Ma senza capire la Playstation, oggi sarebbe davvero difficile capire la realtà in cui viviamo.

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