Il gioco più politico in circolazione è una mostra a Berlino

Non la pittura, né la scultura o la fotografia: Danielle Brathwaite-Shirley per fare arte ha scelto i videogiochi. Abbiamo incontrato l’artista per il debutto del secondo episodio della sua grande personale al Berghain.

“Ero stanca di vedere il pubblico non fare nulla”, risponde Danielle Brathwaite-Shirley quando chiedo la domanda inevitabile, ovvero perché non faccia arte con la pittura o la scultura o altro, ma con i videogiochi. Siamo seduti su seggiole reclinabili da cinema in una sala adibita a ufficio a ridosso dalla sua mostra berlinese nella Halle del Berghain, l’area espositiva che occupa uno spazio importante sul retro del club più famoso del mondo.

L’occasione per incontrare Brathwaite-Shirley è l’accensione del secondo episodio di questa sua grande personale, “The Soul Station”, iniziata prima dell’estate su commissione dalla Las Art Foundation. Con noi c’è il curatore di Las, Boris Magrini, che sottolinea la mission della fondazione, all’incontro tra arte scienza e tecnologia, e di come questa location calzi a pennello per mostrare i lavori di Brathwaite-Shirley, perché come il Berghain sono ricreativi, controculturali e usano “una produzione culturale popolare per sovvertire i meccanismi e sviluppare approcci critici ed esperimentali”.

Danielle Brathwaite-Shirley, The soul station. Courtesy LAS Art Foundation

“Archivio” e “onestà” sono le parole chiave che emergono chiacchierando con Brathwaite-Shirley, artista retrofuturista che ripescando un termine oh-so-‘70s potremmo definire “militante” e che parla esplicitamente di “political games”. I suoi lavori, videoludici e interattivi, sono il riflesso dell’incontro con minoranze, con frange della società che tendiamo a non vedere, soprattutto con persone nere, queer e trans. Ogni progetto inizia in maniera diversa, “ma di solito parte da una conversazione o un workshop con un gruppo di persone con cui voglio lavorare”.

Il gioco è a tutti gli effetti un archivio di quella conversazione: “un archivio non molto convenzionale”, nota l’artista, che lo compara alla costruzione di un mondo di fantasia o a un romanzo di fantascienza. “Capisci i temi generali, ma non è per forza la tua realtà”. Così facendo, spiega Brathwaite-Shirley, si sfugge al peggior pericolo di una mera trascrizione in archivio, ovvero la sua pornificazione. La letteratura ne è piena e cita i casi di persone trans del passato di cui ci resta spesso solo una nota d’arresto e documenti officiali, “non le poesie che hanno scritto, le storie che hanno raccontato, o una loro foto in un giorno qualunque”. L’esempio che indica è quello di Mary Jones, una donna trans newyorkese, vissuta nell’Ottocento, che veniva chiamata “the man monster” (il mostro uomo) e di cui resta solo il verbale d’arresto. Eppure era un genio, si era anche costruita una vagina artificiale. E poi l’artista aggiunge: “magari ripeto anche io i miei stessi errori”. Ma i suoi archivi forse imperfetti sono bilanciati con l’essere “un po’ più onesti: cercano di raccogliere l’anima e di mostrarla".

Ritratto di Danielle Brathwaite-Shirley

Quello dell’anima è un concetto chiave, è protagonista del titolo della mostra, un grande cartello che accoglie i visitatori subito fuori dall’ingresso della Halle gli fa eco, “Tutto ciò che hai fatto / è registrato nella tua anima”, e: “Forse non sei in grado di affrontare la verità / ma non è troppo tardi / per cambiare” e l’utima riga “dai un’occhiata” poteva essere tranquillamente “giocatela”.

Per Brathwaite-Shirley, “i videogiochi ti permettono davvero di metterti alla prova” e la radiazione di fondo di tutta la mostra, se si potesse codificare, è che in qualche modo un videogioco possa se non cambiarti l’anima, almeno aiutarti a capire qualcosa, imparare qualcosa. Un manifesto del videogioco politico e morale. “Penso che uno dei momenti migliori sia quando le persone, davanti a una scelta, non sanno cosa fare, si bloccano, e il gioco va avanti”, dice l’artista, affermando che quella paralisi, dovuta a un’emozione rimasta intrappolata all’interno dell’anima, è lo stato in cui cerca di condurre gli spettatori. Nella sua arte, il gioco è l'atto del giocare: il videogioco e il suo setup, la sua postazione di gioco, vengono concepiti insieme da Brathwaite-Shirley, sono inestricabilmente legati, “come due bambini che nascono separatamente, ma poi crescendo diventano una cosa sola”.

Lo spazio espositivo di “The Soul Station” è la sala giochi di un mondo parallelo, con le campate postindustriali della Halle, i suoi muri scrostati e i grandi pilastri che vengono ricolorati dal riflesso dei giochi di Brathwaite-Shirley che scorrono sugli schermi, con quelle grafiche che sembrano esplodere dal subconscio della golden age del videogioco, quanto mai crudeli nell’aggredire il nostro presente tutto fintamente perfettino e instagrammabile fino alla nausea. Sono in divergenza radicale dalla grande industria del videogioco, quella che strizza i suoi lavoratori fino al burnout per avere il prodotto più raffinato possibile e soprattutto che non vuole rischiare. “Perché dovrebbero rischiare di fare un gioco politico, quando possono guadagnare miliardi facendoti solo uccidere un sacco di persone?”, commenta l'artista facendo una esplicita critica al fatto che in molti videogiochi l'unico punto di soddisfazione sia accumulare cadaveri di nemici. 

Penso che uno dei momenti migliori sia quando le persone, davanti a una scelta, non sanno cosa fare, si bloccano, e il gioco va avanti.

Danielle Brathwaite-Shirley


Quando chiedo a Brathwaite-Shirley i suoi riferimenti, mi racconta con passione la sua attività di ricerca nel mondo del videogioco e di come trova ispirazione in titoli dimenticati dal secolo scorso. La conversazione passa dal contributo hacker negli anni dell’Amiga, gli Ottanta, quando i giochi giravano ancora su floppy, ai motori che ha provato in questi anni per costruire i suoi giochi; da Méwilo di Muriel Tramis, del 1987, tra i primi videogame a parlare di schiavitù (e colonialismo, tanto che in Francia non ebbe un gran successo) ai più recenti Forbidden Siren (Japan Studio, 2003) e Echo Night Beyond (2004, sviluppato da FromSoftware) e la serie Disaster Report: quest’ultima, e in particolare il seguito dell’originale, intitolato Raw Danger! in Occidente, ha particolarmente colpito Brathwaite-Shirley, perché “mostra le cose come sono davvero”, raccontando il lato umano  durante una catastrofe ambientale: “È terribile, cerchi solo di sopravvivere a uno tsunami, e tutti sono devastati: è un’atmosfera molto deprimente”.

Le opere di Brathwaite-Shirley sono legate da un filo rosso, sono un universo in qualche modo coerente e con una sua cronologia, e da qui l’idea di un “secondo episodio”, che di fatto aggiorna tutti i giochi delle “death station” presenti in mostra con quattro nuovi titoli che si vanno ad aggiungere ai precedenti Pirating Blackness, Invasion Pride e altri. Si aggiunge un nuovo capitolo anche al gioco dell’arena che troneggia sulla Halle (il gioco principale dell’esposizione), in cui un singolo giocatore, accomodato su una comodissima postazione reclinata, può trovare negli altri spettatori/giocatori dei validi alleati o i peggiori avversari.

Lo spazio espositivo di The Soul Station è la sala giochi di un mondo parallelo, con le campate postindustriali della Halle, i suoi muri scrostati e i grandi pilastri che vengono ricolorati dal riflesso dei giochi di Brathwaite-Shirley che scorrono sugli schermi.

L’interazione avviene attraverso tablet su cui passano quelle che l’artista definisce “domande un po’ scomode”, che vanno - spiega Brathwaite-Shirley, prima che ci accomodiamo per giocare - da  “sei complice nelle azioni del tuo governo?” a “sostieni l’immigrazione?” a “va bene fallire?”. Le risposte possono tagliare drasticamente il tempo del giocatore, che ha un timer ben visibile sul grande schermo rotondo dove si muove.
 


Questo secondo episodio Are you soulless, too? (il primo era You can’t hide anything) utilizza, a differenza del precedente, non un testo scritto interamente dall’artista, ma una serie di frasi raccolte dalle conversazioni con 5 persone nere e queer che lo hanno ispirato. La storia è quella di due gruppi che si incontrano, e nonostante pensino di avere qualcosa in comune, uno chiede all’altro di cambiare e rinunciare alla propria identità. Riferimenti al corpo e al vivere nella paura sono continui. L’immigrazione è il grande tema sullo sfondo, come l’essere marginali, il non essere accettati. Il gioco, nonostante metta in campo creature digitali che sembrano uscite da un vecchio gioco sugli alieni o illustrazioni colorate, è un pugno nello stomaco nel portare un messaggio non solo politico, ma anche esistenziale. E ti lascia addosso una sensazione di costante pericolo e precarietà, anche ore dopo averlo giocato.  

Mostra:
The Soul Station
Dove:
Halle am Berghain, Berlino, Germania
Date:
Dal 12 luglio al 13 ottobre

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