Il Corvo: perché un’icona Gen X rinasce per la Gen Z

Torna al cinema un antieroe goth ancora popolare: tutto inizia con un fumetto di fine anni Ottanta, ma la fama globale arriva con il film con protagonista Brandon Lee, esattamente trent’anni fa. 

Non capita spesso che un’opera possa essere definita “generazionale”, ovvero lo zeitgeist di un preciso momento storico-culturale che, a distanza di decenni, può essere ancora chiaramente identificato con facilità. Ancor meno spesso, capita che una produzione possa assurgere a simbolo in diversi media, diventando immortale, come accaduto a Il Corvo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Divenuta molto popolare a partire dal 1994, quando ha debuttato al cinema il film con protagonista il compianto Brandon Lee (che, com’è noto, ci ha lasciati proprio nel corso delle riprese, a causa di un incidente sul set), la storia che vede protagonista Eric Draven nasce come fumetto nel decennio precedente, dalla mente e dalla matita di James O’Barr.

La prima uscita di The Crow, febbraio 1989. Immagine da Wikipedia

L’idea della trama nasce da due tristi eventi. Uno vissuto dall’autore, la morte della fidanzata, e uno legato alla cronaca nera del periodo, l’assassinio di due fidanzati di Detroit, uccisi per futili motivi. Nella sublimazione artistica, questi due eventi si fondono e danno vita (post mortem) alla cupa esistenza di Eric Draven come incarnazione dell’entità corvina. Nell’opera,  pubblicata a partire dal 1988 e rivista fino al 2013, dopo essere stato ucciso, il ragazzo viene riportato in vita da un’entità sovrannaturale - il Corvo, per offrirgli la possibilità di cercare vendetta per l’accaduto.

Dal fumetto al film

L’aspetto che ha reso Il Corvo un’icona va ricercato all’interno del contesto storico-sociale in cui nasce. In pochissimo tempo, quel fumetto in bianco e nero figlio della cultura underground - contrapposta a una realtà editoriale mainstream costituita da albi a colori (sgargianti, acidi e onnipresenti nelle tasche di qualsiasi adolescente dall’America all’Inghilterra) - ha trovato spazio nei cuori degli adolescenti che si identificavano nel movimento goth. 

Alexander Proyas, Il Corvo, 1994

Tutta la violenza, il dolore, la solitudine e il senso di perdita avevano finalmente un protagonista molto “umano”, con tutte le idiosincrasie del caso. Il Corvo è stato il primo, vero antieroe complesso dei fumetti in un’epoca in cui erano ancora un medium di massa. 

A metà anni Novanta, quella sensibilità complessa fatta di luci e ombre molto nette che ha trovato riscontro anche nei temi esistenzialisti presenti nella musica, dai Joy Division ai Cure, sbarca sul grande schermo con una pellicola che vede alla regia l’australiano Alexander Proyas, il quale porta questa storia (con alcune modifiche) a emanciparsi dalla “nicchia” in cui era nata,  rendendo quel tipo di sottocultura un fenomeno globale, adattandolo al palato di un pubblico vastissimo. 
 


Eric ha solo un obiettivo, non risponde a nessuno se non al proprio dolore. Eppure, nel farlo incarna concetti universali, che vedono nella vendetta un mezzo di redenzione (almeno, in teoria). Il suo fascino è decadente, oscuro, e affonda le sue radici nelle poesie di Rimbaud e Baudelaire, data anche la sua chiara passione per la letteratura. Allo stesso tempo, però, è anche un rocker solitario, che trasmette passioni utilizzando una chitarra distorta. Il trucco sul suo viso è un chiaro riferimento alle maschere teatrali della commedia dell’Arte italiana, sviluppatesi nel Seicento e nel Settecento. Lo stesso autore, infatti, ha infatti confermato un legame ideale con lo strazio di Pierrot, che al cinema è stato reso ancor più chiaro, grazie all’estetica slanciata e al viso pallido di Lee. 

Un mito che è durato nel tempo

Questo tipo di aspetto fisico divenne talmente iconico che, per tutti gli anni Duemila e i primi anni Dieci, in Italia e nel resto del mondo era molto comune incontrare nelle fiere del fumetto numerosi ragazzi e ragazze impersonanti il cosplay del personaggio. Allo stesso tempo, in particolare sul finire degli anni Novanta, era parimenti comune incontrare anche al di fuori dai contesti fieristici individui che ne riproponevano l’aspetto: i vestiti di pelle, i capelli lunghi e il trucco bianco sul viso. Un’icona riconoscibilissima, insomma, che anche a distanza di molti anni dalla sua creazione restava immutata nel tempo.

Una grossa fetta di pubblico e critica, nei momenti immediatamente successivi all’uscita del film, ha puntato il dito contro il fenomeno mediatico, conferendo il merito del successo unicamente alla tragica morte di Brandon Lee sul set, idea che negli anni è rimasta impressa nella mente di molti spettatori. È innegabile che l’accaduto ebbe, a suo tempo, una copertura mediatica importante, ma ridurre la qualità del contenuto identificandolo unicamente con quel tragico evento è davvero un atto ingeneroso. Per decenni, infatti, la legacy di Eric Draven ha continuato a esistere, tra sequel cinematografici, serie televisive, e altri fumetti (in parte realizzati dallo stesso O’Barr, con protagonista la sua creatura). In tutte queste iterazioni, legate o meno al fumetto del 1994, il Corvo è sempre stato un araldo della vendetta, come lo è stato quando ha ricoperto altre, diverse identità nel corso degli anni, rappresentando comunque lo spirito culturale del tempo. 

James O’Barr, Il Corvo

Proprio in questi giorni, è infine approdato nelle sale cinematografiche la più recente incarnazione del personaggio, la quale rivisita in chiave contemporanea (adattandone quindi il contesto culturale) l’opera primigenia di O’Barr, con Bill Skarsgård nei panni di Eric Draven, con la regia di Rupert Sanders.

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