Mad Max è un’automobile. La saga nasce da Interceptor, il primo film, girato con budget minuscolo, in totale indipendenza, intorno a una strada nel deserto e un’automobile guidata da un protagonista di poche parole. Interceptor è proprio il nome del modello dell’auto in questione. Tutto nasce quindi da un design automobilistico che racconta un futuro in cui, in poche parole, l’acqua è più preziosa della benzina. I due film successivi Interceptor - Il guerriero della strada e Mad Max - Oltre la sfera del tuono, con un budget più adeguati alle ambizioni, hanno espanso quell’universo creando costumi, altri mezzi di trasporto, cittadelle, insediamenti, costruzioni, architetture e capigliature che avrebbero poi influenzato tutto per decenni, da Buronson per Ken Il guerriero al videogioco Borderlands.
Tutto in Furiosa parla di resti di quelle che chiamavamo religioni, e lo fa con gli oggetti.
Per questo quando George Miller, che di tutto ciò è l’ideatore, trent’anni dopo l’ultimo film ne ha girato un altro nel 2015, Mad Max: Fury Road, è di nuovo dal design che è partito. Più mezzi, più maschere, più costruzioni, la musica metal, i camion con le casse, le chitarre sputafuoco, i tubi per succhiare il sangue, e anche per la prima volta un’organizzazione sociale intorno ai mezzi di trasporto: il culto della benzina e il volante come feticcio religioso.
Ci sono così tante idee di design degli oggetti e del loro uso in Fury Road che non serve raccontare nulla (la storia parla di alcuni personaggi intrappolati che scappano, e basta), eppure lo stesso si crea nella testa dello spettatore un’intera mitologia. Di questo mondo futuro capiamo tutto dall’arredamento (scarno) delle stanze e dall’uso che fanno degli oggetti. Capiamo quali risorse esistono in abbondanza e quali no, quali sono i valori della società dominante, la gerarchia e quali le possibilità dei personaggi.
Ora Furiosa: a Mad Max Saga, uscito a dieci anni di distanza da Mad Max: Fury Road, sempre a partire dal festival di Cannes, come quel film lì, per poi arrivare nei cinema di tutto il mondo subito dopo, allarga ancora di più quel mondo. Tutto in Furiosa parla di resti di quelle che chiamavamo religioni, e lo fa con gli oggetti. Chris Hemsworth, signore della guerra folle, entra in scena con un velo cristologico, una specie di sindone, e non mancano richiami ad oggetti dell’islam e delle altre religioni, in un film che spirituale non lo è proprio ma che sa evocare tramite le immagini cosa manchi a quel mondo lì.
Più mezzi, più maschere, più costruzioni, la musica metal, i camion con le casse, le chitarre sputafuoco, i tubi per succhiare il sangue, e anche un’organizzazione sociale intorno ai mezzi di trasporto: il culto della benzina e il volante come feticcio religioso.
Non è niente di diverso dall’ottimo lavoro di design che ha fatto Denis Villeneuve in Dune, nel quale riesce a raccontare un pianeta intero con tutta la sua società con poche scene e scelte visive. Questo deserto australiano potrebbe anche essere per certi versi un altro pianeta della galassia di Dune, ne condivide molti richiami, anche attraverso echi della mitologia del potere greco-romano che come sempre in questa saga passano per i mezzi di trasporto.
L’apice di design di Furiosa: a Mad Max Saga è quello di auto e moto. Design funzionale e industriale che ci fa capire per cosa siano usate e come, ma anche design estetico. Hemsworth si muove alla testa del suo esercito con una biga romana che è trainata da tre moto, invece che da tre cavalli, “guidate” con delle briglie legate ai manubri. Ci sono parapendii usati per la road war tipica di questi film, sidecar che servono a intrufolarsi sotto i mezzi corazzati e un’infinità di invenzioni di questa era in cui la meccanica è venerata e considerata tanto quanto il digitale lo è nel nostro tempo. Le auto sono i personaggi, sono la loro personalità e ne estendono il carattere. Per il signore della guerra con tendenze imperiali è una biga di moto, per Furiosa, che è priva di un braccio ma con una protesi di metallo, a un certo punto sarà un’auto priva di una gomma ma con un protesi di legno che gli consente di muoversi.
E su tutto regna il grande camion con cui vengono trasportati i beni più preziosi. Annunciato come la massima espressione della società che lo ha prodotto e perfetto simbolo. Lo guidano Furiosa e l’uomo con cui condivide un pezzo di azione a perdifiato. Un mezzo che è una macchina da guerra ed esprime una visione di mondo, un gioiello di design meccanico da era industriale, design di guerra e trasporto che, come qualsiasi forma di design, è in grado di parlare dell’epoca in cui è stato fatto.
L’apice di design di Furiosa: a Mad Max Saga è quello di auto e moto. Design funzionale e industriale che ci fa capire per cosa siano usate e come, ma anche design estetico.
Ha le lamiere in metallo istoriate come fosse una colonna dell’antica Roma, ha un sistema di pulegge sotterraneo che consente a Furiosa di stare sotto, tra le ruote, per riparare al volo qualsiasi danno, ha un meccanismo letale sul fondo perché è un mezzo di un’epoca di inseguimenti e cacce, due motori per sopravvivere in un deserto in cui non ci si può fermare, lamiere cromate perché la società di Immortan Joe usa la cromatura come nel cristianesimo si usavano le vesti azzurre, per simboleggiare purezza spirituale.
Non c’è più solo il materialismo della meccanica. A partire da un incipit in cui Miller sembra avere ancora addosso (o in mente) immagini del suo film precedente, Tremila anni di attesa, che parlava di geni della lampada e Medio Oriente, entrano anche altre suggestioni. Scopriamo nelle prime scene una tribù i cui abiti hanno echi nordafricani, usi e costumi spirituali e una gestualità e delle capigliature che all’esaltazione da cocaina dei personaggi della saga sostituisce una calma quasi religiosa, che ha il profumo dell’incenso. Anche il primo inseguimento (di molti) con cui il film si apre è basato sulla calma, la strategia e il passare dei giorni e delle notti. E per creare l’ossimoro che è un inseguimento calmo serve, ancora una volta, un design dell’azione impeccabile.
Non sorprende quindi, visto poi il delirio di azione che si vede nelle successive due ore di film, che alla fine, sui titoli di coda, dopo il nome del regista, del direttore della fotografia e dei montatori, compaia quello di Guy Norris, stuntman che qui è “Action Designer”, un ruolo inedito a cui viene data la dignità delle massime cariche di un set. Ogni sequenza d’azione è una costruzione meticolosa di ambienti, punti di vista che ci consentano di capire ciò che accade (chi è dove rispetto a chi altro) nella maniera più chiara e rapida. Come il miglior design infatti anche quello dell’azione di Furiosa ha come obiettivo giungere all’essenziale: fare nel minor numero di mosse e con la massima semplicità il maggior numero di cose. E ci riesce.