Le sorelle Lana e Lily Wachowski avevano lavorato nell’edilizia prima di arrivare al cinema e hanno una fascinazione per i palazzi. Il film uscito 25 anni fa che le ha rivelate al mondo come cineaste, Matrix (e poi anche i suoi sequel), è, tra le molte cose, anche un inno alla capacità delle città, degli edifici, degli interni e anche solo dell’arredo di raccontare storie, definire personaggi e tutto un mondo di fantasia creato ex novo. In quel film del 1999 c’era così tanto da spiegare, raccontare e dire che non tutto poteva essere lasciato ai dialoghi e quindi tantissimo viaggia solo a livello di immagini, colori (tutto il mondo di Matrix virato in verde come le scritte sui monitor) e design.
Nella storia un hacker scopre di vivere in una simulazione, cioè scopre che la realtà in cui credeva di essere vivo è invece un mondo creato dalle macchine in un futuro in cui coltivano esseri umani per trarne l’energia che gli serve per funzionare. Una realtà virtuale collettiva in cui milioni di esseri viventi vivono esistenze grigie, non sapendo in realtà di essere attaccati a cavi, mentre dormono dentro baccelli tramite i quali inconsapevolmente forniscono energia. Una volta tirato fuori dalla matrice, cioè dalla vita nel mondo virtuale, il protagonista Neo si unisce ai ribelli del futuro e comincia con loro ad entrare e uscire dalla simulazione per combattere le macchine e porre fine alla schiavitù delle persone.
Quindi il mondo di finzione (Matrix) è il simulacro che rappresenta le linee generali della schiavitù, e c’è un parallelo visivo molto diretto tra il concetto di schiavitù e il design che ha quel mondo virtuale creato ad arte dalle macchine (dopo alcuni fallimenti) per tenere buoni e schiavi gli umani. È una megalopoli generica, disegnata perché gli umani la trovino convincente, che somiglia molto a Sydney e Auckland perché lì è stato girato il film (si vedono di sfuggita la Sydney Tower, il palazzo dell’UTS e la stazione di St. James), ma ha anche tratti di Chicago, città natale delle Wachowski. Il colore dominante è il grigio e sono rare le sacche di colore.
È il tipico setting urbano con palazzi che ricordano lo stile degli anni ‘30, ‘40 e ‘50 quando si è espansa l’idea moderna di metropoli. La città della simulazione di Matrix e dei suoi sequel quindi non è mai realmente moderna, non ha nulla delle grandi aggregazioni asiatiche (che oggi invece è uno standard quanto a idea di design urbano del futuro come mostra Westworld), anzi è novecentesca, perché è di quel tipo di alienazione e schiavitù marxista che parla il film sottotraccia. L’individuo si confonde in una massa anonima dentro palazzi anonimi. Il tardo capitalismo è l’obiettivo sotterraneo della critica.
Quello che ci viene raccontato è un mondo creato per schiavizzare gli uomini, mentre quella che vediamo è la società occidentale del capitalismo spinto. Neo lavora in una compagnia senza nome, in un cubicolo come molti, arredato senza personalità, è un anello di una catena che non conosce, si muove in ambienti asettici. Le macchine non vogliono che gli umani si facciano venire strane idee, ma che stiano buoni, che dormano. Pertanto simulano quelle strutture di potere che, alla stessa maniera, regalano assaggi di benessere senza reale soddisfazione né reale frustrazione.
Su tutto trionfa la sensazione di ripulitura. Già nel primo film viene accennato qualcosa che poi è confermato nei successivi dall’Architetto (entità suprema di Matrix, un dolce omaggio delle Wachowski al loro lavoro prima del cinema), cioè che le prime versioni della simulazione non funzionavano bene, non tenevano quieti gli esseri umani perché troppo perfette o troppo infernali. Quella che funziona di più, in cui ha vissuto Neo, è il bilanciamento di guai e infelicità mista a momenti di soddisfazione che conosciamo, solo ripulita. Le superfici immacolate e lucide, le strade senza una cartaccia, i prati tagliati ma nessuna vera presenza di verde (di nuovo, un tratto che invece le metropoli della fantascienza di oggi enfatizzano molto), un trionfo di estetica meccanica che comunica l’assenza di vita.
La base teorica di quel mondo è Simulacri e simulazioni di Jean Baudrillard, testo in cui viene teorizzata la saturazione di segni e simboli della nostra società che porta ad una vita piena di simulacri che non nascondono la verità ma l’assenza di realtà, simboli che insomma non hanno più un referente. Tutti gli attori e anche diversi membri della troupe dovevano leggere quel libro per poter lavorare al film e il film stesso è pieno di simulacri, dalla realtà di Matrix in giù. La rappresentazione del nostro mondo che c’è in quel film vive di simboli, dal consumo di massa della moda (di cui il film fu alfiere) fino ad esempio all’uso delle poltrone Chesterfield nella scena iconica della pillola blu e pillola rossa, quando Neo deve scegliere se continuare a dormire o scoprire la vera realtà uscendo dalla simulazione.
Il risveglio di Neo in un futuro che non conosce è un trauma anche per gli spettatori, all’epoca ignari della doppia natura del film, che passano da un mondo quieto e verosimile ritenuto autentico (perché così simile al nostro), ad uno invece agghiacciante, cupo, fatto di macchine dal design animalesco (insetti e polipi), con il sole oscurato e strutture come la grande piantagione di umani, dal funzionalismo esasperato e disumano. Che sensazione proviamo guardando Matrix ogni volta che Neo lascia il distopico mondo reale per rientrare in quello ripulito della simulazione e per tornare in quella metropoli tra Sydney, Auckland e Chicago fatta di palazzoni e strade ordinate? Una volta scoperta la natura di simulazione di quelle immagini che effetto ci fa quell’architettura? E che effetto ci fa usciti dal cinema quando ci imbattiamo in punti, città o zone che la ricordano?
È la capacità dei film migliori di associare un nuovo significato ad immagini che popolano anche la vita reale, di fatto cambiando la sensazione che associamo ad esse. Detto con un’espressione enfatica e banale, cambiano la maniera in cui le guardiamo, in realtà danno a quei segni un significato in più e portano ognuno a farsi una domanda inconscia in più: ma è come la realtà programmata dalle macchine quella in cui mi muovo? Anche la mia realtà dietro questa tranquillità è così disumana?
Nei film della saga di Matrix le uniche forme di ribellione, passione, forse amore, vengono da scene come quella del rave in cui Neo incontra per la prima volta Trinity, la donna che lo condurrà a scoprire di vivere in una simulazione. I rave sono popolati da persone che hanno intuito che esiste qualcosa di più nel mondo di Matrix, sono sporchi e disordinati. Non sono come il cubicolo in cui lavora Neo di giorno. È di nuovo una forma di aggregazione, un design degli interni e una serie di ambienti a raccontare un’istanza umana.