Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1083, in edicola a ottobre 2023.
Viaggio in Italia: Dove finisce l’Italia
Un ritratto del profondo Nordest in quattro tappe: Trieste, una delle “capitali” meno conosciute d’Italia, Muggia, sul litorale, Casarsa della Delizia, il paese della madre di Pasolini, e Aquileia, ex capitale dell’Impero Romano, oggi meta per turisti raffinati in Birkenstock.
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- Walter Mariotti
- 28 settembre 2023
Dove finisce l’Italia? A Nordest senz’altro a Muggia, che conclude, redimendole, le note dolenti di Trieste. Una delle ‘capitali’ meno conosciute d’Italia che, alla fine dell’estate, tradisce scelte che nessuna interpretazione può spiegare. Superato il notevole villaggio di Aquilinia, progettato dal Fascismo per alloggiare lavoratori e famiglie della gigantesca raffineria Aquila che, dal 1937 alla metà degli anni Ottanta, fu uno dei pilastri dell’economia giuliana, a Muggia l’entusiasmo di ragazzi e ragazze che ridono come solo la gioventù sa fare trasformano un pontile di cemento nella più bella spiaggia del Mediterraneo. Quanto lontani sono questi tuffi, spinte e abbracci da quelli dei litorali pasoliniani. E che contrasto con la metallica immobilità delle gru del porto di Trieste e con la piazza Unità d’Italia, che fanno da sfondo all’adolescenza dall’altra parte del golfo. Eppure, partecipano alla medesima vicenda nazionale, urbanistica e sociale che dal Sud del Paese giunge fino a questo confine con la Slovenia. Vicenda che non è tanto la perdita dell’innocenza contadina descritta da PPP, Pier Paolo Pasolini, o l’avvento dell’economia postmoderna denunciata dal sindacato portuale, ma lo svuotamento del senso con la pratica del morphing urbano.
Come aveva intuito il conte Carolus Cergoly, nel suo indimenticabile, ma molto dimenticato, Il complesso dell’imperatore (Mondadori, 1979). Da questo pontile a due passi dalla Slovenia si vede bene dove finisce l’Italia e soprattutto perché finisca così. Sia il porto che piazza Unità d’Italia, infatti, nascono attraverso interventi di sottrazione del costruito che trascinano cancellazioni di funzioni sociali, metamorfosi di semantica e, soprattutto, perdita di senso. Del resto, è dal XVIII secolo che Trieste lavora allo svuotamento del senso grazie a un processo di cancellazione architettonica in cui il porto, dichiarato franco nel 1719 dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo, arciduca d’Austria e re d’Ungheria, diventa il cuore del progetto politico di fare di Trieste la capitale economica, finanziaria e logistica dell’impero. Una scelta senza dubbio favorita dalle acque profonde della baia, difficili da trovare nell’Alto Adriatico e perfette per navi di grande cabotaggio, ma che presto finisce nella retorica politica sostenuta dall’urbanistica.
Iniziato con i primi interventi di Borgo Teresiano a nord e Borgo Giuseppino a sud, il piano procede con la riscrittura del molo Audace che, dal Novecento, non svolgerà più funzione di attracco delle navi. L’urbanistica risemantizza così lo svuotamento del centro storico, allineando i grandi palazzi delle Assicurazioni Generali e del Lloyd Adriatico, che perdono presto la funzione di sede di attività, diventando quinte teatrali urbane, proprio come pensava Sebastiano Serlio nel Cinquecento. Una mutazione urbanistica in direzione autoreferenziale, retorica e infine turistica. Confrontare l’aspetto delle rive della città nell’ultimo secolo e mezzo impressiona. Salvo l’aumento delle auto e la scomparsa dei mezzi pubblici su rotaie, emerge solo la cancellazione delle navi, con le attività portuali spostate e quindi Porto Vecchio e Canal Grande desertificati. Senza però la spessa coltre di alberi e vele, visibili dal mare, la città si trasforma in un panopticon che ruota idealmente sul molo Audace che, inoltrandosi nel centro degli edifici ma senza avere più funzioni, la trasforma in una gigantesca photo opportunity.
Per la piazza dell’Unità, il Teatro Verdi, la chiesa greco-ortodossa di San Nicolò dei Servi e, girandosi dal lato opposto, il santuario di Monte Grisa, il castello di Miramare, il faro della Vittoria. Cheese! Da città di mare e di commerci, da centro identitario e strategico, da capitale dell’impero Trieste entra nel Novecento come metaluogo per le regate e le passeggiate della domenica. Tutto grazie all’architettura, dimensione estetico-turistica che produce nostalgia accomunando Trieste al destino di crisi del Belpaese. Peccato che l’architettura come estetica non aiuti il riscatto economico, sociale e strategico di una delle città più importanti d’Europa, che comunque resta la porta dei Balcani e della Mitteleuropa e il vero snodo del quadrante mediterraneo/eurasiatico.
Tornando a casa dal confine, s’incontrano almeno due città che, come Trieste, hanno perduto funzioni, in un senso politiche e amministrative e in un altro semantiche e mitopoietiche. Una è Aquileia, una delle tre capitali dell’Impero Romano che oggi è essenzialmente una meta per turisti raffinati e colti. Sviluppatasi attorno alla basilica patriarcale, per un raggio di circa un chilometro, inglobando anche i resti dell’antica città romana, è circondata da paludi recuperate che nell’ultimo millennio sono state coltivate intensamente, dietro la pineta di Belvedere e San Marco. Le vicende storiche di Aquileia non si riscontrano nell’abitato attuale e tantomeno nella sua “valorizzazione turistica”, che ai restauri conservativi oppone la marketizzazione delle aree antistanti i monumenti. Stesso destino di Casarsa della Delizia, pochi chilometri più avanti, il paese del nonno materno di Pasolini che tanta parte ebbe nella formazione dello scrittore. Oggi, passeggiando per Casarsa, di Pasolini resta solo la casa trasformata in un cenotafio laico di provincia dietro la stazione fascista e davanti a un caffè, specializzato in mojito, dove giovani e meno giovani di tutte le età si scambiano video.
È la nemesi del primo Pasolini, quello di Poesie a Casarsa, pubblicato nel 1942 e confluito nel 1954 ne La meglio gioventù, dove emerge il sentimento della sua poetica e si definisce il suo mito fondativo: l’esistenza di un mondo arcaico, innocente, puro, un mondo che ancora sente e parla con il sacro. Di quel mondo oggi a Casarsa non resta più niente, proprio come non resta niente dell’impero nei chioschi dei parcheggi della cattedrale di Aquileia. Tutto è cambiato, tutto è precipitato nei sandali Birkenstock dei turisti tedeschi e nei tatuaggi che sono la parodia della gioventù eversiva dei paesi di provincia. Tutto dimenticato salvo la lingua dei contadini che oggi, come nelle pagine di Pasolini, suona come un codice comunicativo altro, perduto a metà tra l’infantile e l’iperletterario. Peccato che questa lingua non racconti più l’estrema fuga degli individui dall’omologazione, ma la loro definitiva accettazione di un mondo fondato sulla negazione della natura sorgiva dell’adolescenza e la natura corruttiva dell’età adulta che ha tolto qualunque potere salvifico. Perfino ad architettura e urbanistica.
La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover