Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1082, in edicola a settembre 2023.
In principio c’era la storia e, come in ogni storia, tutto iniziò per caso o, meglio, per capriccio. “Faites-moi une petite folie”, scrisse Nathalie Volpi di Misurata all’architetto milanese Tomaso Buzzi, amico e collaboratore di Gio Ponti prima che qualcosa li allontanasse. Forse la febbre esoterica dell’ideatore della Scarzuola, che non collimava con l’energia cattolica del fondatore di Domus.
Fatto sta che, mentre il conte Volpi era intento alla fondazione del Festival di Venezia, la sua signora e l’architetto milanese ingannavano la noia sorridendo a un’altra fondazione, il loro sogno palladiano. Una villa neoclassica di bianco abbagliante, con doppio colonnato, doppio abbraccio sul mare e sul lago e doppia servitù sulle dune di Sabaudia. La città edificata in soli 253 giorni nel fatidico 1934, sotto l’occhio di “Benito Mussolini Capo del Governo che questa terra volle redenta dal millenario letargo di mortifera sterilità”. Una redenzione che il Duce controllava personalmente, facendo la spola da Villa Torlonia ogni settimana. In motocicletta.
Terminata sul bordo degli anni Cinquanta, Villa Volpi, considerata il primo abuso sulle dune ricolme di ibisco, restò nascosta almeno per dieci anni, fino a quando Pietro Germi la immortalò in Divorzio all’Italiana. Era l’inizio del 1961 e, di lì a poco, un’altra colonizzazione si materializzò, molto diversa sia dai gerarchi in orbace che attorniavano il Duce sia dagli happy few in lino, tacchi e organza della signora Volpi. Era la nova gens palatina che, per sfuggire alla cementificazione imposta alle capanne di pescatori di Fregene o di Tor San Lorenzo, iniziò l’esodo verso sud, vedendo in quella lingua di terra protetta dalla roccia della maga Circe un feudo privato o, più semplicemente, una cosa loro.
“Se non fosse per Villa Volpi laggiù, questa sarebbe ancora l’Italia di Stendahl. E Sabaudia, una città del silenzio stile Novecento”, scrisse per tutti Alberto Moravia, burbero capo riconosciuto della meglio gioventù che stava colonizzando idealmente, oltre che fisicamente, Sabaudia, che nata nera divenne subito rossa. In realtà, la metamorfosi di Sabaudia fu immediata. “Una città ridicola, fascista”, scrisse Pier Paolo Pasolini. “Improvvisamente, però, ci sembra così incantevole. Quanto abbiamo riso, noi intellettuali, sull’architettura del Regime, sulle città come Sabaudia! Eppure, adesso, osservandola, proviamo una sensazione assolutamente inaspettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo: il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico”.
Ebbro di Sabaudia, PPP decise addirittura di acquistare una casa spalla a spalla con Moravia, scelta che si rivelò il suo miglior investimento immobiliare. Una strana coppia. La mattina Pasolini lavorava alla sceneggiatura de Il fiore delle mille e una notte, il pomeriggio indulgeva in bagni e partite di calcio in spiaggia e la sera s’intratteneva coi “deliziosi militari” della caserma della Marina. Moravia invece, che non aveva ancora incrociato tra le dune le forme di Carmen Llera, andava a letto presto e si svegliava presto, smetteva di accanirsi sui tasti dell’Olivetti intorno alle 11, quindi scendeva “a comprare un bel pescione” per invitare gli amici a cena. Amici che però preferivano la casa di Laura Betti che, non amando la spiaggia, imbandiva il suo regale sformato di patate e mozzarella.
Quanto abbiamo riso, noi intellettuali, sull’architettura del Regime, sulle città come Sabaudia! Eppure, adesso, osservandola, proviamo una sensazione assolutamente inaspettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo.
Pier Paolo Pasolini
C’erano tutti: Enzo Siciliano e Andrea Barbato, ospiti in una casa presa in affitto da Monica Vitti; Anna Magnani ed Elsa de’ Giorgi, che di giorno si nascondevano sulle rocce di Punta Rossa. E poi Giorgio Moscon, Laura Mazza e Sandro Manzo della galleria Il Gabbiano di Roma, Bernardo Bertolucci – girò qui un passaggio de La luna – Fabio Rieti, Piero Guccione, Dario Bellezza, Gabriella Pescucci. Una volta, sotto un sole davvero africano, arrivò persino Jean Genet, giustificando di trovarsi in partibus infidelium per “una missione politica in favore dei palestinesi”.
Alle cene non mancavano Michelangelo Antonioni con Monica Vitti, Bernardo Bertolucci con la moglie Clare, Mario Missiroli, Marco Bellocchio, Dacia Maraini e Andrej Končalovskij, che atteggiandosi a esule russo piaceva alle ragazze quasi più di Mario Schifano, che inaspettatamente volle una casa borghese con vista e giardino. Il convitato di pietra era comunque sempre PPP che, dopo cena, scompariva dicendo di andare a Nettuno, ma chissà.
A Sabaudia e alla sua architettura, Pasolini avrebbe dedicato una struggente intervista televisiva, combattendo con le dune e il vento, un anno e mezzo prima di essere massacrato. Il mito di Sabaudia nasce dunque qui, lungo gli struggenti e palazzinari anni Sessanta, che, come racconta Il sorpasso di Dino Risi, trasformarono il Paese e anche i suoi abitanti, costumi estivi inclusi, spingendo chi si sentiva diverso ad affittare, o se possibile comprare, quelle capanne che alcuni aristocratici romani, come i Pacelli, la famiglia di Pio XII, avevano cominciato a ottenere dal demanio.
Il paradosso, però, è che la mutazione antropologica della Sabaudia novecentesca, per dirla con Pasolini, fu operata proprio da questi ultimi, intellettuali politicamente progressisti, ma concretamente reazionari, che in un classismo rovesciato e non sempre inconsapevole vagheggiavano una restaurazione di architetture, oltre che di costumi. Una metànoia antifascista e anticapitalista come lavacro per un protetto, esclusivo, unico paradiso terrestre.
Ma come sempre accade, alla storia si sostituì la controstoria. E quel luogo unico, sospeso fra lago e mare, quella riserva naturale e ideologica divenne presto l’emblema di quanto la superiorità intellettuale può ardire. La gens palatina che nei Sessanta sognava il mare di Omero e predicava l’Italia di Stendhal, nei decenni successivi fu protagonista di una delle più incredibili violenze sul paesaggio che la storia d’Italia ricordi. Al punto che oggi quelle stesse dune protette da una legge nazionale pullulano di costruzioni dalle forme più varie, che fanno un unicuum coi corpi tatuati, il vino alle pesche, i costumi interdentali e la musica a palla.
Lontano Villa Volpi che dal demanio ebbe la concessione di un grande parco, appare quasi sperduta e indifesa nella sua maestà ed eleganza, simbolo di un tempo senza tempo in cui le vacanze d’élite si chiamavano ancora villeggiatura. Per il resto, in questo dorso di spiaggia all’apparenza infinito dove nessuno ricorda non tanto Concezio Petrucci, l’architetto e urbanista della bonifica delle Paludi Pontine, ma nemmeno gli intellos caviar che ne costruirono la mitologia, si continuano a leggere ricorsi contro presunti abusi del presidente, del ginecologo, della stilista, che si oppongono ai bulldozer, implacabile contrappasso alla leggerezza dei lini e delle cene di un tempo. Oggi, passeggiando in borghese per Sabaudia e le sue ville, la profezia di PPP appare completamente realizzata, fra divi televisivi, odori acri di creme solari e cancelli di ville sulle dune, dove si continua a vivere facendo finta di nulla nell’attesa del ricorso al Consiglio di Stato.
La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover