Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1081, in edicola a luglio 2023.
“Da Parma a Bologna, la Via Emilia ha una certa poesia, fino a quando il sole si accontenta di fare sbadigli rossastri dietro la linea d’orizzonte. Allora, più che su una strada, sembra di pedalare in un enorme corridoio. Le porte delle case sono tutte aperte: si vede la gente che si lava la faccia in grandi catini d’acqua fresca, si vedono le bocche rosse dei forni familiari, si sente il profumo del pane. Anche le porte di tutte le chiese sono spalancate sulla strada e i grandi santi di gesso colorato salutano gli operai che vanno al lavoro e guardano stupiti il cicloturista che fugge dal lavoro pedalando sulla sua superleggera scintillante d’alluminio”. Così Giovanni Guareschi, nel 1941, quando ancora i giornali provavano a raccontare il mondo. Per lui, che c’era nato, la Via Emilia più che il simbolo era la metafora dell’Italia, di quell’inspiegabile “miraggio urbano”, sopravvissuto a tutto e a tutti.
Oggi la chiamano Strada Statale 9, ma in realtà è la Via Emilia, una striscia di asfalto dritta e piatta che collega Rimini e Piacenza, tenendo assieme l’immaginario di una ventina di città, che potrebbero benissimo essere una megacity regionale sull’idea di Saskia Sassen.
Eppure urbanisti, politici e amministratori non hanno mai dato segno di capirlo, a differenza di scrittori, intellettuali e cantanti. “La Via Emilia”, scrive per tutti Francesco Guccini, “tagliava Modena in due; la strada dove abitavo, da una parte, s’incrociava con essa. Dall’altra parte c’erano già gli ampi campi della periferia. Erano un po’ il nostro West domestico: bastava fare due passi o attraversare una strada e c’erano già indiani e cowboy, cavalli e frecce; c’era, insomma, l’avventura”.
L’avventura della Via Emilia parte dal Ponte di Tiberio, in uscita dal centro di Rimini. Cinque arcate in pietra d’Istria, un miracolo dell’architettura e dell’ingegneria romane che, a distanza di due millenni, è ancora solido e splendente. Il vero sforzo, però, fu incidere l’arenaria dell’Appennino e bonificare migliaia di acquitrini. Lo impose nel 187 a.C. uno strano console, Marco Emilio Lepido, che la convenzione indica come l’ultimo dell’era repubblicana. Lepido decise che l’antica strada, adottata prima dagli Etruschi e poi dai Galli, sarebbe stata ideale per le armate e i mercanti di Roma, a condizione che fosse ingegneristicamente riadattata e lastricata. Da allora, i 250 km che collegano Rimini a Piacenza furono un grande spartiacque geopolitico, utilizzato da chiunque.
Risalendo verso Nord, i Romani la prendevano a Rimini dopo la Via Flaminia per la Gola del Furlo. Scendendo a Sud, i Longobardi e i Franchi la lasciavano a Fidenza, e a volte anche a Parma, per raggiungere la Tuscia e calare ancora più a meridione, attraversando il varco di Montebardone. I pellegrini romei e i mendicanti catari di tutta Europa, invece, l’alternavano alla Francigena optando per i tratti più sicuri e anche più facili. Un successo millenario.
Uscendo dalla provincia di Rimini, si attraversa il fiume Rubicone che segnava il confine tra l’Italia e la Gallia. Lì, c’è un punto dove Svetonio dice che Giulio Cesare pronunciò la famosa frase “Il dado è tratto”. Oggi è difficile rintracciarlo, ma attraversando il fiume accade un fatto strano: l’epica diventa folklore e i fasti romani lasciano il posto ai balli romagnoli. Savignano è infatti il paese di Secondo Casadei, l’uomo che trasformò i canti romagnoli in musica nazional popolare. Proprio come a Nashville con il country e a New Orleans con i funeral blues.
Proseguendo verso Nord si arriva a Bologna, che i romani chiamavano Bononia perché era stata fondata nel 189 a.C. dai Galli Boi sull’antica città etrusca di Felsina. Passeggiando sul selciato della Via Emilia di Santa Maria Maggiore è evidente come lo scopo della sua realizzazione fosse strategico. Dopo i Galli Boi, che Roma volle sottomettere perché alleati di Annibale, si dovevano soggiogare anche i Liguri, popolo ancor più difficile che estendeva il controllo dall’Emilia occidentale alla Lunigiana. La vittoria contro i Liguri confermò il Senato sull’immenso sforzo economico richiesto dai lavori della strada e Lepido venne eletto Pontefice Massimo.
Verso Bologna s’incamminò Sant’Ambrogio nel 393, lungo i greti dei fiumi che avrebbero creato i confini degli staterelli sgraditi ai viaggiatori stranieri, in particolare a Stendhal. Nemmeno nel XIII secolo, con la centralità indiscussa di Firenze, preferendo lo stradale della Futa e della Raticosa, la Via Emilia fu messa in discussione. Restò sempre la Strada Maestra, soprattutto per l’incertezza del paesaggio fluviale della Bassa (padana), sopravvivendo a Rinascimento, Controriforma, Illuminismo e persino all’Unità d’Italia quando, per farla tutta, toccava attraversare ancora 16 dogane e sottoporsi alle angherie di gabellieri che facevano indignare John Ruskin.
Alla rivoluzione fascista, la Via Emilia rispose con quella delle biciclette. “Un grillaio di biciclette”, commentò Corrado Alvaro, che non l’amava a differenza di Guareschi che la usava persino per andare a Milano. Tornando da Roma, il lessicografo Alfredo Panzini la sceglieva per fare il mare a Bellaria, proprio come Olindo Guerrini, il poeta del velocipede che, alla fine dell’Ottocento, aveva imposto ai soci del Touring Club Ciclistico Italiano di fare la Via Emilia, ridendo e sudando fino all’accordo con Hitler.
È dopo la catastrofe della guerra che la Via Emilia perde i propri connotati. Da un lato, vuole diventare la rappresentazione della “via italiana al Socialismo”, che finirà sulla copertina di Time. Dall’altro, sposa il mercatismo più spinto in nome della storia, ma soprattutto di quello che Edmondo Berselli chiamava “lo spirito autoctono della praticità”. Sulla Via Emilia si afferma così un doppio standard: l’estetica cooperativa di stampo sovietico e il consumismo da Route 66. Un ircocervo destinato ad avere esiti fatali, sul piano identitario prima che urbanistico e architettonico che nemmeno i Vandali.
In un paio di decenni, chiese, palazzi, piazze, archi, fontane e quant’altro spiegati da Francesco Arcangeli e Roberto Longhi vengono fagocitati da benzinai, ipermercati, concessionari di auto di lusso e di macchine agricole da Far West. E poi, capannoni presto abbandonati, motel poco letterari, gommisti, discoteche, sale giochi e infrastrutture senza senso. Trasferite le sue funzioni di raccordo strategico alla vicina Autostrada del Sole, sulla Via Emilia il dinamismo di una delle regioni più produttive d’Europa lascia spazio a un’altra emozione più vicina alle forme del suburbio globale.
Arrivati a Sesto San Giovanni, dove la Via Emilia termina davvero, è sera di un giorno di fine primavera. Ripensando a quanto visto, tornano in mente solo le parole di un altro genio che l’ha conosciuta bene: Giovanni Lindo Ferretti. “Emilia di notti agitate per riempire la vita / Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire / Emilia di notti ricordo senza che torni la felicità / Emilia di notti d’attesa di non so più quale amor mio che non muore / E non sei tu, e non sei tu, e non sei tu / Emilia paranoica”.
La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover