Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1080, in edicola a giugno 2023.
“L’architettura è troppo importante per essere affidata agli architetti”. Pochi progetti hanno il potere di confermare il feroce disincanto di Giancarlo De Carlo quanto San Miniato, l’insediamento a due chilometri da piazza del Campo che, alla fine degli anni Settanta, la classe dirigente senese volle perché l’ultima mezzadria della campagna più bella del mondo potesse realizzare il sogno d’inurbarsi a equo canone. Un sogno che divenne presto incubo per due paradossi opposti e reciproci nascosti nella trama delle cose.
Il primo perché quel quartiere orizzontale ed egualitario, dove gli appartamenti di quattro vani erano divisi gli uni dagli altri da scale ricoperte di plastica nera e balaustre azzurre, ma privi di qualunque funzione sociale, lo aveva immaginato proprio lui, l’ingegner De Carlo. L’ufficiale di marina, il partigiano anarchico, il teorico della fine della retorica modernista che a Siena giunse deciso ad affrontare “temi precisi in modo non convenzionale, mirando al fondo delle questioni, senza calcoli né riserve mentali”. Architetto “per caso”, De Carlo era emerso nel panorama del Dopoguerra per aver dichiarato conclusa sia la teoria funzionalista della “macchina per abitare” di Le Corbusier, sia il verbo modernista di Mies van der Rohe e Walter Gropius. Non gli piaceva nemmeno il pensiero organico di Bruno Zevi, sostenendo che per fare architettura bisognasse tener presente soprattutto elementi non architettonici: la storia, la natura, le tradizioni, la gente. “La gloria delle città dipende dall’immaginazione dei cittadini e questa, a sua volta, dai circuiti di esperienze e di scambi di cui sono partecipi: dipende, in definitiva, dalle energie dei luoghi”.
Il secondo perché San Miniato, organizzato secondo principi razionalisti, con edifici multipiano a doppio corpo, tetto piano e intonaco bianco, era in piena antitesi proprio con l’energia del luogo, oltre che con i canoni costruttivi locali, la tradizione del laterizio e soprattutto la cifra estetica che nei secoli aveva fatto di Siena un mirabile esempio della coincidenza di urbs, civitas e communitas.
Questo criterio, metafisico prima che politico, era la Balzana. Un principio che resta all’origine dei primati sociali, culturali e architettonici sorti quando Parigi e Londra erano ancora conglomerati di capanne e tribù fangose. Il Santa Maria della Scala, il prototipo di ospedale pubblico, gratuito e affrescato della storia; la Balìa, l’embrione di ogni forma di democrazia europea moderna; il Monte dei Paschi, un apparato controintuitivo per battere l’usura grazie all’abbondanza della natura.
La gramigna cresce fra le mattonelle, alcuni passaggi esterni hanno già subito un deterioramento che non può che peggiorare senza la necessaria manutenzione. (…) Magagne, intralci, imprevisti che sembrano non avere fine grazie anche a una normativa farraginosa, contestata da tempo, ma che al momento sembra offrire poche vie d’uscita.
Corriere di Siena, 2013
Su questi motori, una borghesia raffinata, cosmopolita e spregiudicata fece prosperare una città a 100 chilometri dal mare, su tre colli e con un fiume solo leggendario. Esprimendo quell’alleanza unica tra paesaggio e territorio, campagna e città, pragmatismo e visione che la poesia di Ambrogio Lorenzetti chiamò “Effetti del Buon Governo”.
Non appena, invece, le prime sagome della Città Nova si stagliarono fra gli ulivi della stretta conca tra Montarioso e Le Scotte, fu evidente che San Miniato era ancora l’effetto dell’allegoria del Lorenzetti, ma il buon governo era del tutto scomparso.
De Carlo prese subito le distanze, definendo il quartiere viziato da “varie deformazioni introdotte dall’opportunismo dell’amministrazione comunale”. Difficile, però, capire di quale opportunismo parlasse il professore ligure, che a Siena avrebbe passato altri nove anni ospite, con la sua scuola, degli amministratori che aveva criticato, a occuparsi di altre aree strategiche, come La Lizza.
Più facile fu osservare la parabola di un degrado ideale e materiale, esasperato dall’immediata assenza dei servizi sociali che ne avrebbero dovuto costituire la spina dorsale. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo con la retorica ufficiale, la politica reagì varando un Piano di Recupero, forse memore delle polemiche del 1952, quando l’intensiva lottizzazione dell’area tra San Francesco e Santo Spirito avanzata dalla proprietaria, marchesa Ginevra Chigi Zondadari Bonelli, venne bloccata. Non era però più il tempo in cui gli amministratori e gli architetti ascoltavano personalità come Cesare Brandi, Mario Bracci, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Così il Piano continuò a non funzionare, finché l’allora giovane sindaco Pierluigi Piccini, in un moto d’orgoglio, riuscì a ottenere dal ministero dei Lavori Pubblici un Contratto di Quartiere per San Miniato.
Traducendo dal linguaggio dell’ideologia, si doveva semplicemente dare al quartiere gli spazi che fanno una città: spazi commerciali, sociali, culturali, ricreativi, amministrativi.
Erano 14,5 miliardi di lire di finanziamento per ripensare l’insediamento convenzionato alla luce delle “nuove esigenze e delle nuove disponibilità”. Traducendo dal linguaggio dell’ideologia, si doveva semplicemente dare al quartiere gli spazi che fanno una città: spazi commerciali, sociali, culturali, ricreativi, amministrativi. Nelle ultime righe, il Contratto ammetteva il naufragio proponendosi “di avviare una politica di recupero del patrimonio edilizio esistente e realizzare abitazioni destinate specialmente a un’utenza anziana, da integrare con il potenziamento di uno specifico programma di assistenza e con attività di animazione; dotare l’intervento di edilizia residenziale sperimentale di opere di urbanizzazione secondaria a esso funzionalmente collegate, studiare ed adottare soluzioni energicamente innovative, da applicare successivamente al programma più vasto”.
Purtroppo, le innovative ed energetiche soluzioni rimasero un auspicio e così non riuscirono a invertire la deriva delle cose. Venticinque anni più tardi, quasi tutto restava ancora da fare e l’unico vincitore era il tempo. “La gramigna”, scrisse il Corriere di Siena del 2013, “cresce fra le mattonelle, alcuni passaggi esterni hanno già subito un deterioramento che non può che peggiorare senza la necessaria manutenzione. (…) Magagne, intralci, imprevisti che sembrano non avere fine grazie anche a una normativa farraginosa, contestata da tempo, ma che al momento sembra offrire poche vie d’uscita”.
Oggi, attraversare il progetto di urbanizzazione esterna più rilevante della storia del Novecento senese lascia una sensazione di straniamento. È una tarda domenica di primavera e il ponte del 25 aprile pare aver desertificato tutto. Girando a vuoto, si arriva in una piazza rettangolare, irregolare, che asseconda la forma a conca del fondovalle. Degrada ad anfiteatro, congiungendosi da un lato con lo spazio antistante del centro civico e dall’altro con una piastra che ricrea il piano su cui si impostano gli edifici residenziali. La pavimentazione è fatta da elementi di cotto con geometrie in travertino. Nella porzione di testata pare esserci una fontana, vuota, pavimentata con la stessa ghiaia di fiume usata per i percorsi pedonali dove continua a regnare la gramigna. S’intuisce che la morfologia e il trattamento materico vogliono ricordare piazza del Campo, vicinissima eppure proibita dall’enormità, indescrivibile, dell’Ospedale Santa Maria alle Scotte. Alcuni ragazzi giocano lontano, non si capisce a cosa. Tutto intorno silenzio.
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