“Mi dispiace di non poterla ricevere. Non è un gran momento. Sentiamoci dopo il Salone. È sempre un piacere incontrare Domus”. Rodolfo Dordoni parlava come disegnava.
Leggero, elegante, soprattutto molto sottile.
Guardando i suoi lavori poteva sembrare razionale e algido, come a prima vista lui pareva freddo. In realtà era l’opposto: una passione e una carica vitali dietro un apparente sobrietà temperata dall’esercizio del rigore.
Un modo di pensare, essere e fare che ricordava i maestri del design della stagione precedente, quella di Magistretti e Castiglioni, e che aveva contribuito a formare lo “stile milanese”, che resta l’essenza del design italiano ma anche l’anima della città. Una città che oggi lo ricorda e lo piange.
Dordoni era una delle quintessenze di Milano, anche nel suo modo di tenersi lontano dalla ribalta, dalle luci, di nascondere i giardini dentro le corti e i segreti negli appartamenti.
Oltre che di stile, così, Dordoni dava lezioni di discrezione, caratteristiche che si ritrovano nei suoi progetti, di cui Domus ha parlato per anni, in un dialogo aperto e costruito nel tempo. Un rapporto intelligente, forse la qualità che Dordoni apprezzava di più nelle persone e nelle cose.
Forse così la chiave più opportuna è ricordare che in tutto il suo percorso di designer e architetto, ma soprattutto di intellettuale e creativo il leitmotiv era il tono. Il design di Dordoni era sempre tenuto, mai urlato, rifuggiva la sceneggiatura, le mode, le frivolezze. Guardava all’essenza della forma. Non il contrario.
Gli oggetti di Dordoni non chiedono di essere protagonisti dello spazio ma preferiscono accenderlo con occasioni, appuntamenti misteriosi, incontri silenziosi. Rendendo le case protagoniste di quella straordinaria vicenda che resta il quotidiano.
Ci mancherà.