“E sotto er monumento de Mazzini…” Così inizia Ragazzi di Vita, libro con cui nel 1955 Pier Paolo Pasolini debutta come romanziere. Con il verso di uno stornello romano che subito, come in una sceneggiatura, catapulta il lettore in un contesto urbano, popolano e boccaccesco. Un territorio in cui l’intellettuale ama sguazzare, esplorare, e anche rischiare.
Pier Paolo Pasolini e la forma della città
Pasolini fu un grande cantore delle borgate, eppure detestava le case popolari. A cent’anni dalla nascita, quanto è attuale la sua esplorazione delle periferie di Roma e Milano?
View Article details
- Lorenzo Ottone
- 05 marzo 2022
Pasolini, trasferitosi nella capitale da solo pochi anni, “venuto a Roma un po' come un turista inglese o tedesco che scende al Sud”, dipinge una psicogeografia candidamente cruda e neorealista della capitale. Attraverso il paesaggio, fa scoprire all’Italia intera i dedali delle borgate romane e i personaggi che le popolano, diventando così uno dei più illustri e autorevoli cantori di Roma, assieme a nomi come Fellini, Flaiano, Gadda e – più recentemente – Sorrentino. Ironia della sorte, nessuno di loro è romano.
La periferia come Sud del mondo
“Per raccontare il suo rapporto con la periferia, anche quando scrive in poesia, Pasolini usa l’ossimoro. Dunque la periferia esiste in opposizione alla città, mettendo a confronto il mondo borghese con un mondo che sta sparendo: quello della borgata.”
Così racconta in un ottimo italiano Silvia Martín Gutiérrez, spagnola, tra le più affermate accademiche su Pasolini, fondatrice dell’archivio digitale Città Pasolini e curatrice di una mostra fotografica che inaugurerà a maggio nella cornice di Villa Manin a Passariano, Udine.
Secondo Gutiérrez, per Pasolini gli spazi sono una caratteristica metadiscorsiva, paesaggi della mente e dell’animo. Per questo motivo la borgata viene elevata a concetto extra geografico, identificando Roma con le porte di una grande periferia che è il Sud del mondo, dove il baraccato romano può ritrovarsi nel contadino nordafricano, dove il sottoproletario di Accattone (1961) è universalmente paragonabile all’afroamericano negli Stati Uniti della segregazione razziale.
Questo concetto emerge nello scouting delle location dei suoi film. Gli spazi scelti non corrispondono a quelli reali, ma sono congeniali all’evocazione di un sentimento e a una visione di una società tripartita tra ieri, oggi e domani. Ovvero tra il Friuli, dove cresce il Pasolini “giovinetto”, incarnazione di un mondo perduto fatto di chiese e ruralità; il presente, cioè la Roma delle borgate in via di disfacimento e scomparsa; e il futuro, rappresentato dalle visioni oniriche offerte da paesaggi esotici. Questo il paesaggio che Pasolini confessa di amare di più in un’intervista con Achille Millo del 1967.
Nell’approcciarsi al territorio come regista, Pasolini osserva l’edilizia modernista squarciare l’armonia delle città. Scarta così Israele e Romania, dove voleva girare rispettivamente il Vangelo Secondo Matteo (1964) e Edipo Re (1967), in favore di Lucania e Basilicata, ultimi territori in cui si possono ritrovare scenari pre-industrializzati vicini a quelli dei testi sacri.
L'edilizia popolare provoca dolore
Per Pasolini la casa popolare, pur compresa nel suo ruolo sociale, va ripudiata nella forma. Lo spiega in Pasolini… E La Forma della Città, un documentario trasmesso nel 1974 dalla RAI, in cui esplicita l’“offesa” e il dolore che le nuove costruzioni provocano al suo animo “educato al bello”.
La città va scomparendo sotto la mancata tutela da parte dello Stato, spiega Pasolini, per il quale ci vorrebbe una salvaguardia non tanto dei landmark più celebri, ma del passato anonimo e popolare della città, in quanto fondamentale alla sua identità. E quindi Roma è descritta come una città “ai primi attimi del dopostoria”, fatta di “certi ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia, e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono” – succede ne La Ricotta, facente parte del film a episodi Ro.Go.Pa.G. (1963), dove il protagonista, il regista interpretato da Orson Welles, si fa portavoce e nemesi mondana di Pasolini.
Il malessere della gioventù di periferia
Viene ovvio associare Pasolini a Roma. Ma nel 1959, gli viene commissionata una sceneggiatura ambientata a Milano. È La Nebbiosa, che racconta una città in cui emergono più stridenti le contraddizioni della società dei consumi sui figli delle periferie.
Passando dall’osservazione dei giovani della capitale politica, a quelli della capitale morale del Paese, Pasolini scopre i teddy boys, la prima sottocultura italiana modellata sul fenomeno statunitense del ribelle senza causa, che guarda a Marlon Brando ma canta le canzoni del rocker tricolore Celentano. Ne La Nebbiosa – originariamente pensata con lo squisito titolo di Polenta e Sangue e successivamente trasposta nel film Milano Nera del 1961 – l’autore, girando tra i bar di Bollate e i trani dell’Ortica, coglie una periferia milanese dalle sfumature piccolo borghesi, ancora agli inizi della migrazione dal meridione, e in cui i delinquenti parlano in dialetto lombardo.
“Guarda che sono più milanese di te, ho fatto tre anni al Beccaria,” recita uno dei teddy boys nel film, imbeccato sulle sue origini da un compagno di ghenga.
L’opera, oltre a offrire un inedito spaccato della gioventù underground italiana di fine ‘50, è sorprendentemente contemporanea nel mettere in luce come a distanza di decenni, i problemi e i pattern comportamentali dei giovani che abitano le periferie urbane rimangano gli stessi.
I teddy boys in motocicletta, inutilmente violenti e bonariamente estatici, con addosso gli occhi voyeuristici della stampa scandalistica del tempo, ricordano i trapper delle faide di quartiere che oggi ci racconta moralista la cronaca. Ma anche quelli che, ammaliati dai miti promossi dalla società dei consumi, inseguono il sogno della carriera musicale come forma di rivalsa e escapismo. Sono l’eco di discorsi sociali globali, che si estendono ben al di fuori dei confini nazionali, passando per le periferie della Londra dei mods e della diaspora caraibica di ieri, del drill oggi, o della Francia delle Banlieue catturate dal film Palma d’Oro La Haine del 1995.
Il lascito di Pasolini è un dibattito aperto
È proprio ai margini della città, sul lungomare di Ostia, che Pier Paolo Pasolini perderà la vita, assassinato nella notte tra il 20 e il 21 Novembre 1975.
È esattamente nel fatto che per comprendere l’Italia di ieri e di oggi sia necessario passare attraverso l’opera di Pasolini che risiede uno dei più grandi lasciti dell'intellettuale friulano, spiega Roberto Chiesi, direttore culturale del Centro Studi dedicato a Pasolini presso la Cineteca di Bologna e co-curatore della mostra “Folgorazioni Figurative” nel capoluogo emiliano, una delle più importanti tra quelle che celebrano i cento anni del poeta e regista.
Come spiega Chiesi, questo lascito oggi ritorna vivo grazie a una serie di cineasti che metabolizzano in maniera intelligente e personale aspetti dell’arte pasoliniana. “Penso a film come Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, o a Piccolo Corpo di Laura Samani, in cui c’è la scelta di fisicità anomale, lontane dai canoni televisivi e della pubblicità”.
Pasolini ritorna anche nell’esplorazione antropologica e psicogeografica di progetti artistici che utilizzando linguaggi della contemporaneità come il videoclip (Francesco Lettieri) o della fotografia smartphone (il profilo Instagram @bukkakeconnection, per esempio). Essi ci restituiscono un ritratto attualissimo e intimo sui volti e i luoghi di una Roma popolare mutata ma non perduta.
Il dibattito inaugurato da Pasolini sul rapporto tra edilizia e diritti sociali risulta dunque tuttora aperto. Come conclude Gutiérrez, non perché l'intellettuale fosse un visionario, “ma perché dotato di una lucidità e capacità di analisi dei fatti del presente che non aveva paragone”.
Pier Paolo Pasolini, 1960 Monte dei Cocci. Foto: Paolo Di Paolo © Archivio Di Paolo.