Ingresso meridionale di Messe Berlin, al primo giorno di Ifa, l’esposizione di tecnologia più rilevante dell’Occidente dopo gli americani del CES: usualmente qui, nel piazzale, di fianco alla gigantesca scritta IFA e poi dentro l’imponente semicilindro di vetro e metallo che fa da anticamera alla fiera, si starebbe accalcati come fuori dai cancelli di un megaconcerto, ma di una band che impone come divisa ai suoi fan il completo elegante da venditore e il trolley, la divisa da hostess alle tante ragazze, o l’uniforme minimal-geek con inesorabile tocco sfortunato – il borsello, la scarpa superfat mezza slacciata, la camicia a quadri un po’ Muji un po’ grunge – dei giornalisti del tech. I più scafati solitamente passano di qui solo per la foto di rito alla folla in fila, e poi si buttano su uno degli altri ingressi. Quest’anno, comunque, niente di tutto questo. Il piazzale è semideserto, a parte tre musicisti davanti a una telecamera. Anche la scritta Ifa, giusto accanto a loro, è più piccola. Siamo all’edizione 2020, quella che a un certo punto neanche si doveva fare.
L’esposizione minima
Tech is back è il motto di questa edizione di Ifa diversa da tutte le precedenti Ifa, che infatti si autoproclama “speciale”. Onore al merito, in un mondo dove ogni cosa è rinviata, sospesa, cancellata, dalla Design Week milanese al micro-evento di quartiere, Ifa ha fatto una mossa coraggiosa. Probabilmente anche con un occhio al portafoglio. Qui nei padiglioni semideserti – 30mila metri quadri – ci si chiede se valesse la pena. È una fiera snella, tutta impostata sulla GPC – Global Press Conference, tre giorni di speech, solitamente un evento a sé – e non sull’esposizione, a cui comunque vengono dedicate due aree: un unico padiglione che raccoglie per metà dello spazio un manipolo di coraggiosi brand, da Huawei a TP-Link ai sex toys di Satisfyer agli smartwatch di Fitbit – che poi è una succursale di Google, dall’acquisizione del 2019 – ad altri semisconosciuti; nell’altra fetta dello spazio, divanetti e postazioni per i giornalisti, e un chioschetto dove un caffè costa il doppio che in città. Nel CityCube, spazio da 12mila metri quadri progettato da Code Unique Architekten e aggiunto all’impianto storico della Messe berlinese all’inizio del nuovo secolo, casa fissa di Samsung qui a Ifa, ci sono le startup (Next) e la parte mobilità (Shift); all’interno sparisce per un istante quella sensazione di trovarsi in un villaggio fantasma, in una fiera postatomica, in un relitto abitato dai più coraggiosi. Poi si entra nella sala conferenze, svuotata come un cinema tra uno spettacolo e l’altro. Mancano solo i pop corn a terra. La fiera è finita qui. Qualche numero: 1450 espositori, di cui circa un decimo però si presenta qui a Berlino; 6000 e qualche bruscolo di partecipanti in persona, quasi 80mila connessi via internet. Le parole chiave: casa, lavoro, gaming, entertainment, suono, lockdown, attività fisica, sostenibilità.
Senti chi parla
Colonne d’Ercole di una esposizione che l’anno scorso contava 25 hall multipiano, per non contare il gigantesco giardino interno, molti hanno incontrato i fantasmi di stand faraonici e musica a palla nelle hall 3.2 e 4.2, nei cui spazi si ospitano in successione alternata le conferenze dei brand che partecipano alla GPC. Sono gigantesche e svuotate, con uno schermo che le percorre su uno dei lati lunghi, le sedute disposte a distanza. Lo scan del QR code personale avviene ogni volte che si entra, i ragazzi che controllano vestono un badge con le lingue che conoscono, parlano il tedesco e l’inglese, l’ungherese e il catalano, lo spagnolo. Peccato che qui di stampa spagnola non ce ne sia, chissà se qualche ungherese si è presentato. C’è invece di sicuro più un rilevatore che conta quanta gente c’è in sala e dopo un po’, come in una specie di piccola università - o una prigione? –, quattro gatti che siamo, ci si conosce tutti almeno di vista. Sul palco la virtualizzazione è estrema. Il presidente di LG Ip Park si presenta in versione ologramma, la cosa forse più bella di Ifa. La prima lavastoviglie connessa di BSH, il gruppo creato nel ’67 dalla convergenza tra Siemens e Bosch, emerge attraverso un’animazione da un monolite bianco installato sul palco. La presentazione di Hyundai è una conversazione la giornalista Nicole Scott in carne e ossa qui a Berlino, e il CEO della divisione europea Michael Cole, il quale appare in un video preconfezionato che sembra ripescato direttamente da una trasmissione di Minoli degli anni d’oro. Poi c’è Huawei che si fa lo spottone con il faccione di Walter Ji, presidente della divisione consumer per l’Europa, moltiplicato quattro volte sull’immenso vidiwall, in una excusatio dedicata all’Europa più strategica che petita da parte dell’azienda che Trump vorrebbe delenda il prima possibile, lasciando al sub-brand Honor l’onore (sic) e soprattutto l’onere di presentare una sfilza di prodotti “smart life” per una “young generation” che, come iconizzato nei grafici a schermo, nei primi mesi del 2020 ha comprato smartwatch, laptop, smart tv come se non ci fosse un domani (e in effetti a un certo punto pensavamo davvero che non ci sarebbe stato). Ma almeno Honor ha portato fisicamente i suoi prodotti da toccare nello stand. Di tutto il resto, come esempio l’interessante casa smart costruita da LG in Corea, abbiamo solo qualche immagine intorno a cui potrebbero blaterare a lungo complottisti come quelli che hanno sfilato qualche giorno fa proprio qui a Berlino.
In fiera con Mad Max
“Questa è come sarebbe sempre stata Ifa se al mondo fossimo 5 miliardi di meno”, sintetizza in sala catering davanti alla totale assenza di code in pieno orario da pranzo il collega Andrea Nepori, contributor di Domus, che a Berlino ci vive. Quest’anno lo spazio è tanto, il microclima più sano, l’interazione più facile anche se ci si presenta con un tocco di gomito al posto della canonica stretta di mano, e il Wi-Fi scorre forte meglio che la Forza in Luke Skywalker. Tutti quelli che sono qui – i pochi che sono qui – si mostrano disponibili per una battuta. Ma là dove comincia questo paradiso del giornalista finisce quello delle aziende, come sottolinea in una chiacchierata Gianpiero Morbello, Head of Brand & IoT in Europa per Haier, il colosso cinese che con l’acquisizione del gruppo Candy nel 2019 ha calato un tris sul Vecchio Continente, puntando su Hoover come brand della tradizione, aggredendo la fascia alta con gli elettrodomestici a marchio Haier e scommettendo sulla potenzialità dell’azienda di Brugherio per fare breccia nelle case di chi ha familiarità con smartphone e Instagram, un po’ meno con gli elettrodomestici. In una convergenza completa degli elettrodomestici verso la connettività, la lavatrice con un solo pulsante iperconnessa e poco costosa Nova, progettata con in mente esigenze e tasche della Gen Z che la gestisce interamente via app, è una potente rappresentazione di quel prodotto del futuro che venivamo a toccare con mano qui a Ifa, com’era successo con Bianca, la lavatrice parlante sempre di Candy, un piccolo fenomeno nell’edizione di qualche anno fa.
La tecnologia ne ha bisogno?
L’anno 2020 è stato crudele per l’umanità, non per la tecnologia, almeno fin qui. Anzi. Ha reso le nostre vite e le case in cui ci siamo chiusi “smart” in senso profondo. Ha cambiato la geografia e il tempo e le relazioni, il concetto di spazio pubblico e privato. Il modo in cui lavoriamo, in cui ci divertiamo, in cui compriamo (online +64%). Insomma, quello che proprio Ifa ci aveva raccontato che sarebbe arrivato con il 5G, l’hanno portato il Covid-19 e il lockdown, trasformando gli schermi schermi di casa in irrinunciabili balzi nell’iperspazio delle nostre esistenze. Inutile ribadire che le vendite dei dispositivi sono alle stelle. Il titolo di Apple, grande assente di Ifa sempre e insieme bussola tecnologica globale, nonostante un inciampo da 180 miliardi in questi giorni, continua a valere il doppio rispetto a marzo. “Disruption is acceleration”, proclama snocciolando dati sull’impennata delle vendite online Sean O’Neall, alle spalle esperienze tra Tesco e Amazon, look alla Leonard Cohen, ora in Gfk, il quarto più grande istituto di ricerche di mercato del mondo e global partner di Ifa. E ancora “Disruption > Opportunity” è scritto sui cartelloni di Gfk che accolgono i visitatori. L’accelerazione colpisce tutti, anche le fiere. Anche Ifa, e questa edizione potrebbe passare alla storia come l’anno zero. Ci chiederemo a lungo se l’esposizione sarebbe arrivata comunque a questo punto, visto che la fiera si svuotava di occasioni anno dopo anno, a favore di eventi sparsi per la città, con le varie multinazionali che si sfidavano a colpi di location una più incredibile dell’altra qui a Berlino, mentre gli smartphone top di gamma, ovvero i gadget più notiziabili del nostro presente, è oramai da tanto che non vengono più lanciati in questa sede, ma vanno tutti a ruota dell’imprescindibile lancio tardo settembrino dell’iPhone. Per quanto ne sappiamo in questa edizione di eventi “off Ifa” ce n’è stato solo uno, quello di Sennheiser, che ha presentato un innovativo sistema di suono per le auto nel suo store ufficiale, a due passi dallo Zoo.
Nuovi protagonisti
“Normalmente, non potremmo essere qui”, racconta in un ottimo italiano Patricia Lopez da Siviglia, fondatrice di Myhixel. La sua startup – unica azienda spagnola, per venire Patricia e una collega hanno fatto un tampone a 300 euro – presenta un dispositivo per il “climax control” negli uomini, i quali nell’80% dei casi, quando soffrono di eiaculazione precoce, non cercano un consulto medico. L’apertura al sesso, prima vietatissimo o almeno occultato – ebbene sì, succedeva a Berlino, la città del Berghain e di tante delizie erotiche iperfluide, fino all’anno scorso –, è un tema portante di questa edizione, e Satifyer, “la Xiaomi tedesca dei sex toys”, com’è stata prontamente rietichettata, schiera tre relatori sul palco principale per una conferenza in cui, nell’ultimo giorno di fiera, presenta la sua app. Ci si aspettavano fuochi d’artificio, la triste realtà è una roulette russa caricata a salve. Una noia mortale. Ma è stato solo l’ennesimo caso.
That’s all folks!
Perché se vogliamo rifare le fiere, dovremo rifare i fieristi. Sul palco ibrido, per metà reale e metà virtuale, non può salire un CEO qualunque, com’è successo praticamente sempre qui a Berlino. Per questo meraviglioso kolossal pandemico che sono le grandi fiere video trasmesse in diretta streaming planetaria, ci vorranno nuovi e migliori effetti speciali per mostrare i prodotti, e protagonisti che stiano sul palco come a casa loro. Insomma, probabile che vedremo sempre più epigoni di Steve Jobs, capaci di parlare al cuore e alla testa, e vendere così il sogno prima ancora dell’oggetto. Qualcuno c’è già in circolazione, anche se non è passato da Ifa: l’ovvio Elon Musk, Pete Lau di OnePlus, e l’istrionico Richard Yu, uomo-chiave dell’ascesa di Huawei. Intanto, ci teniamo questo esperimento, con la sciarada di rigidissimi speaker tedeschi (in carne e ossa) e orientali (in versione virtuale) che si sono alternati sul palco, e questa generica, improbabile sensazione di ottimismo che si respirava alla fine della tre giorni, per cui quest’anno è andata così, ma vedrai che ci rifacciamo l’anno prossimo, come se la vita fosse l’eterna estate di speranze della blasonatissima squadra di calcio che non vince da troppo tempo. Sul finale, commozione generale quando, sempre dal palco, viene lanciata la prossima edizione, e annunciato che è già prenotata al 60% dal parte degli espositori. “Questa non è una partnership, è una amicizia”, proclama orgoglioso il presidente della fiera di Berlino Christian Goke, sottolineando l’importanza dell’Xtended Space, l’estensione virtuale di questa IFA e aggiungendo, con un certo orgoglio, l’importanza di avere mostrato, anche alle altre fiere, che sì, è possibile e importante esistere ancora, la pandemia nonostante. E per quest’anno è finita, e va bene così.