Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020
Molte tra le città più vecchie degli Stati Uniti stanno affrontando il problema del progressivo declino della popolazione e dell’attività economica. In alcune aree ciò ha portato a situazioni di degrado tali da minare le comuni iniziative di riqualificazione, basate su un incremento dello sviluppo residenziale e commerciale. Per rispondere a questo stato di cose, gli studiosi di urbanistica e progettazione hanno sviluppato la teoria della “decrescita intelligente”, che pone l’enfasi su impieghi dei terreni non edificabili per mantenere e migliorare la qualità della vita, individuando aree per future attività orientate alla crescita.
Le ricerche alla base della decrescita intelligente e la sua attuazione comportano l’applicazione di metodi e decisioni sul piano scientifico e architettonico per identificare i lotti inutilizzati o abbandonati da acquisire e riqualificare per usi alternativi, così da soddisfare una serie di obiettivi sociali ed economici nel quadro di severe limitazioni di risorse. Com’è, quindi, concettualizzata la decrescita intelligente? Qual è la differenza tra i processi decisionali applicati nella pratica e la teoria del modello decisionale? Come possono architetti e pianificatori fare un uso più appropriato delle scienze dell’informazione e delle politiche decisionali per sviluppare strategie sostenibili e politicamente corrette?
Per rispondere a queste domande, assieme a un team di pianificatori di Baltimora, a Michael Johnson (docente all’Università del Massachusetts, Boston) e a Eliza Davenport Whiteman (professoressa alla Columbia University, New York), ho condotto delle ricerche, usando dati spaziali e metodi decisionali e analitici per selezionare raggruppamenti di lotti, chiamati cluster, da adibire a usi alternativi del territorio che ottimizzano più obiettivi, secondo quanto illustra il nostro volume Supporting shrinkage: Better planning & decision-making for legacy cities (SUNY Press), di prossima pubblicazione. Questi usi del terreno si traducono in agricoltura urbana, gestione delle acque reflue e stabilizzazione. I risultati del nostro modello decisionale consistono in strategie di sviluppo di cluster alternativi e mettono a confronto le nostre raccomandazioni con le scelte di riqualificazione attuate dai professionisti del settore. In tal modo, articoliamo una teoria delle modalità decisionali per la decrescita intelligente che farà il migliore uso dei dati, della tecnologia e dell’esperienza di pianificazione per generare nuove ed efficaci strategie per rivitalizzare le aree degradate. Si tratta di una metodologia che si basa sull’azione partecipativa, sulla tecnologia dell’informazione e della ricerca operativa basate sulla comunità.
Questa indagine mi ha spinto a riflettere su alcuni fondamentali che guidano gran parte del cambiamento delle zone urbane che sto studiando a Baltimora e negli Stati Uniti. Mi ha fatto pensare che, quando i pianificatori americani si trovano di fronte a un’area metropolitana in deterioramento, si concentrano quasi solo sulla riqualificazione ‒ considerando i fattori sociali, culturali ed economici che spingono le persone a non voler abitare, lavorare e investire in tali luoghi. La riqualificazione è un approccio sbilanciato dal lato della domanda, basato sull’idea che dovremmo aumentare la richiesta per tali aree. Mi chiedo se possa invece funzionare l’approccio contrario, basato sull’offerta. Diamo un’occhiata al processo di urbanizzazione, alla costruzione di strutture che, generalmente, durano solo 30 anni: da nuove, sono invitanti, accoglienti e attraenti. Quando invece sono vecchie e richiedono manutenzione, lo sono meno. Senza altri poli d’attrazione importanti nelle vicinanze, le strutture si deteriorano per la mancanza d’investimenti, di manutenzione e ricostruzione.
Considerato dal lato della domanda, l’approccio ci dice che dobbiamo incrementare l’attrattiva fondamentale di questi luoghi, ma io mi chiedo se alcuni di questi presupposti non siano fuorvianti. Perché non concentrarsi, invece, sul problema principale, il deterioramento degli edifici? Mentre la loro struttura può non degradarsi così rapidamente, può deteriorarsi la loro durata come strutture abitative, lavorative e di svago. La risposta sta quindi nella città modulare: se ci sono elementi che suggeriscono una richiesta durevole, le strutture dovrebbero essere costruite in modo da essere semipermanenti; dovrebbero essere modulari e trasportabili, di modo che, quando il richiamo della novità svanisce, possano essere smontate, trasferite e riassemblate altrove. In questo modo, nessun segmento di area urbanizzata subirebbe un degrado generalizzato, salvo circostanze particolari di aree limitate. Questo sistema di costruzione modulare verrebbe implementato durante la costruzione, per facilitare lo smantellamento quando l’edificio non è più necessario, ma anche per sostenere il carico e le necessità legate alla costruzione di piani aggiuntivi.
La seconda componente della città modulare è di tipo legale, per cui l’uso degli edifici sarà dettato in parte dal fatto che la popolazione sta crescendo, diminuendo o mantenendosi uniforme. Durante un periodo di crescita, saranno imposti limiti o controlli-chiave sullo sviluppo, che supportano l’espansione intelligente e sostenibile. Questi strumenti sono ben documentati nella letteratura relativa alla crescita intelligente e al neourbanesimo e includono tecniche come la suddivisione in zone su base formale, la salvaguardia dei quartieri storici e i programmi di miglioramento delle facciate.
Allo stesso modo, quando la città modulare affronta lo spopolamento, tali meccanismi regolatori possono assicurare che vengano implementati i principi-chiave per creare una città sicura, confortevole e sostenibile. Il Relaxed Zoning Overlay (l’applicazione di una regolamentazione meno stringente) offre flessibilità nei tipi di uso che l’amministrazione locale può consentire quando un luogo inizia a mostrare un declino della popolazione. Per esempio, anziché avere una casa sfitta per anni per il crollo della richiesta di alloggi, che sarebbe preda di occupazioni abusive o vandalismo, un codice di zona meno stringente farebbe sì che la struttura possa essere riciclata per usi non residenziali (come uno studio per artisti o agricoltura urbana), migliorando la qualità di vita del quartiere. Tutto ciò è materia di riflessione sulle possibili strategie per affrontare lo spopolamento: sulle idee creative che potrebbero aiutare architetti e pianificatori a contribuire ad adeguare le città per affrontare il cambiamento in corso.
Immagine di apeertura: foto Justin B. Hollander
Justin B. Hollander è docente di Politica e pianificazione urbana e ambientale presso la Tufts University di Boston. È cocuratore del volume Urban Experience and Design: Contemporary Perspectives on Improving the Public Realm (Routledge, 2020); cura la serie Cognitive Urbanism su Apple Podcasts.