Sono le 6.30 del 2 giugno e sto per andare a piedi da Cologno ad Assago: dall’estremo nord-est all’estremo sud-ovest di Milano. Milano la capitale morale d’Italia, una città metropolitana da 3,26 milioni di abitanti nel mezzo della pianura padana e all’interno di una regione che in Italia ha pagato il prezzo più alto per la pandemia Covid-19, con oltre 16.000 decessi ufficiali.
Ma perché sono lì?
Sono lì perché da dieci anni ogni anno faccio questa piccola impresa, è la mia traversata di Milano. È una piccola impresa perché è davvero alla portata di tutti, anche senza allenamento, e si può portare a termine in meno di una giornata di cammino; però è comunque un’impresa, una cosa che non tutti fanno, o hanno voglia, o viene in mente di fare.
Fanno male, perché camminare, meglio ancora se da soli, fa un gran bene alla testa, pensare solo a come mettere un piede davanti all’altro - e non pensarci neanche - e scoprire la città con tempi e modi impensabili normalmente. Val la pena quindi di partire per la traversata di Milano, no?
Dalla stazione di Cologno chiedo così indicazioni al conducente ATM in pausa: per Milano? A piedi ovviamente, e comincio il cammino.
Cologno scompare subito lungo una statale dove non passa una macchina neanche per sbaglio e che porta verso il San Raffaele. È tutto verdissimo, la città non c’è. Milano nel suo nord, anche al di fuori del comune di Milano in senso stretto, mi ha sempre dato questa idea: molto verde. L’impressione che avevo è corroborata da quel che ho intorno camminando da Cologno al San Raffaele, direzione Cascina Gobba quindi: parco ovunque, niente palazzi, niente edilizia, poco di costruito dall’uomo. Non c’è praticamente niente in questa parte di territorio lombardo tra Cascina Gobba e Cologno, solo verde, strade statali, tunnel, altro verde ovunque, un grande senso di pace, ancora del verde. Sarà l’ora del mattino, visto che siamo intorno alle 7 di un giorno di festa, ma ovviamente non incontro nessun essere umano a piedi, né in macchina, per chilometri.
Almeno finché dopo una mezz’oretta di cammino vedo l’Ospedale San Raffaele. Arrivo alle spalle dell’edificio principale, quello con sopra l’Angelo, gigantesco, che svetta a 60 metri di altezza sulla cupola dell’ospedale - l’angelo è in realtà un arcangelo, ovviamente Raffaele: è alto otto metri e mezzo per 32 quintali di peso - e resta comunque visibile da altre galassie. A non dare le spalle, invece, venendo da Cologno, a un certo punto c’è una specie di visione hippie: un’enorme rotonda sormontata da un maneggio con alcune decine di cavalli liberi, e sullo sfondo l’arcangelo.
Per arrivare più verso Milano occorre però tornare indietro e prendere a quel punto l’ultimo, finalissimo tratto di via Padova - a un certo punto vedo un raro numero civico a tre cifre: è il 400 di via Padova - e superare la stazione della metropolitana di Cascina Gobba, allo scopo di avviarsi verso l’urbanizzazione, verso i palazzi, verso viale Palmanova. Qui inizia la civiltà. È un luogo che possiamo chiamare avamposto tra città e non città. Anzi: tra non città e civiltà.
Ed è una civiltà di case normali o popolari, di piccoli negozi etnici aperti, di baretti microscopici, dove una Fiat Panda con allestimento Italia ’90 - bianca, mascotte Ciao e tricolore lungo la fiancata - è parcheggiata per strada da qualcuno che la guida in maniera non ironica. La guida e basta, la usa senza nostalgie come l’oggetto industriale che è, senza layer. È una Fiat Panda, funziona, la usa. Vado verso via Padova per le viette che la separano da viale Palmanova, sono poche centinaia di metri. C’è poco di rilevante e allo stesso tempo moltissimo: qualche matto ha appiccicato alle centraline dell’Enel per strada dei messaggi di odio verso Giuseppe Sala cheb stracciati da qualcuno ricordano piccoli Rotella involontari.
Via Padova quindi: piena di vita, lo sappiamo, quella vita è la vita della Milano di oggi e di domani. Negozi in gran parte aperti, comincia un po’ di traffico di auto, e c’è gente in giro. Mascherine a parte, sembra di stare nella città di sempre. Come il 2 giugno del 2019, o del 2018.
Nella Milano post Covid però c’è un settore, tra i tanti colpiti da una crisi di cui dobbiamo ancora capire l’effettiva e certamente devastante portata, che è già da mesi in un pessimo momento: quello delle affissioni. I 6 x 3 sono quasi sempre liberi, qualche volta con effetti surrealisti senza volerlo - il cartellone sostituito da un cielo azzurro cobalto, visto da un benzinaio - qualche altra volta immacolati, bianchi, qualche volta blu chiaro.
Sempre in via Padova c’è spazio anche per un breve pellegrinaggio a uno degli ultimi cinema porno di Milano, l’Ambra, in via Clitumno. Da tempo chiuso e abbandonato, ma va ricordato che l’ultimo locale a luci rosse del genere è stato il Pussycat, dall’altra parte della città, vicino piazza Tirana, Giambellino / Lorenteggio.
Via Padova permette così di allungarsi verso il semicentro di Milano, tra un balcone sopra a un bar ricoperto da un tricolore largo molti metri e una serranda abbassata, e un negozio aperto, e un bar aperto ma col plexiglas che separa la barista cinese da te e dal caffè, fino a piazzale Loreto: snodo che cambierà nei prossimi anni, che sarà tutta un’altra cosa, certo.
Ma che per ora, è ancora la piazzale Loreto di sempre, mediamente trafficata vista l’ora, con la vegetazione in mezzo alla piazza che esploro rapidamente in mezzo ai bambù alti svariati metri e alle auto che fanno il giro intorno, ripensando alle leggende metropolitane che volevano ci vivesse qualcuno in tenda lì in mezzo. Al momento il centro della piazza è - non saprei dire se fortunatamente o sfortunatamente - disabitato.
Lungo corso Buenos Aires c’è qualcosa di nuovo - le piste ciclabili realizzate nei mesi del Coronavirus, una buona, ottima idea - ma per il resto è sempre il corso di sempre, un corso che se fosse pedonale, sarebbe meglio. Come per tutto ci vorrà del tempo ma si arriverà anche a questo. Ci sono molte biciclette in giro, molti monopattini elettrici e non, enormi affissioni di Netflix ironiche, enormi palazzi senza affissioni, completamente bianchi con solo una palizzata gialla in legno, che diventano ottimi sfondi per scattare qualche foto ai passanti. È una normale giornata di vacanza questo 2 giugno, e chi può esce di casa.
La marcia prosegue, con grande calma, con grande desiderio di perdere tempo ma neanche perderlo: non pensarci nemmeno al tempo.
Così verso le 11 del mattino c’è un vero ingresso, un confine da attraversare, il casello di Porta Venezia. Quel che oggi segna l’ingresso nell’Area C una volta - una volta secoli fa, visto che risale al 1827 - era altro.
Varcato il confine, si entra in Palestro.
L’aria che si respira alla fine è la stessa, il passaggio, e il cambiamento del paesaggio, quando il movimento è così impercettibile, quello deciso dal passo dell’uomo, non si avverte. Sembra che Milano sia una grande sfumatura, senza stacchi netti, non c’è un momento di in cui puoi dire prima era una cosa, ora è nettamente, chiaramente, inequivocabilmente un’altra. Forse con le circonvallazioni, ma forse nemmeno con quelle.
Via Palestro offre quel che offre sempre: un distillato laterale di alta borghesia milanese. Le vie interne, procedendo verso piazza San Babila, come via Mozart, via Serbelloni, sono e restano il migliore emblema dello stile di una Milano d’altri tempi. A voler scoprire un palazzo nella zona, consiglierei Casa Sola-Busca, quella dell’orecchio citofono di Adolfo Wildt. Ma ovunque, in quelle vie, si casca bene, e una passeggiata diventa una lezione di storia.
Non mi sposto comunque dalla mia piccola impresa e vado dritto: da via Palestro fino a San Babila. Piazza San Babila oggi come oggi, nel giugno del 2020, non è al massimo della sua forma. Vuoi i lavori per la M4, vuoi tutto il resto. Ma è mai stata la massimo della forma? È mai stata bella, gradevole, usabile, piazza San Babila? Piazza San Babila, volendo far polemica, è un errore e una bruttura ben peggiore di piazzale Loreto, solo che San Babila al contrario di Loreto è una bruttura irrimediabile, salvo demolizioni al momento difficili da prevedere.
Da San Babila però c’è un vantaggio, poter proseguire lungo il corso e verso piazza del Duomo. Girare nelle vie interne, verso l’Apple Store, perdere altro tempo.
La giornata del 2 giugno in piazza del Duomo prevede una manifestazione sovranista, e proprio nella piazza si incontrano ragazzini sovranisti quanto la manifestazione che piegano un enorme tricolore lungo una decina di metri. Siamo al centro.
Dal centro è necessario spostarsi ai margini. Per arrivare ai margini da piazza del Duomo - dopo un breve saluto alle palme di Starbucks, non in formissima, poverelle, sarà stato il maltempo? - è necessario imboccare via Torino. Via Torino è stata per generazioni di milanesi oggi quarantenni una via dello struscio, di negozi dove quattordicenni provare a farsi (da zero, non rifarsi) un guardaroba. Oggi via Torino malgrado i negozi più recenti, resta una via un po’ fané, un po’ di un altro tempo. Non di un altro tempo però quanto piazza Diaz, con i suoi night club, le sue agenzie viaggi, le sue Peugeot 205 CJ (Cabriolet Junior) parcheggiate, ma comunque più assimilabile a quel campo da gioco dove si sfidano tempo, e urbanistica, e investimenti commerciali, che ad altre vie del centro con un blasone più lustro. Per esempio? Via Palestro, per esempio.
Superata piazza del Duomo l’effetto principale di questo piccolo viaggio a piedi da una parte all’altra di Milano, è che man mano si svuota la testa dai pensieri, lasciando spazio solo al cammino. Si trova una concentrazione simile alla meditazione a camminare soli per chilometri, parlando solo con qualche passante per chiedere un’indicazione (perché ovviamente avevo uno smartphone, ma volutamente non l’ho usato per poter chiedere informazioni ai passanti).
Come accennavo all’inizio questo genere di piccola impresa fa molto bene alla testa, ai piedi forse meno, ma non siamo ancora in quella fase, quella arriva il giorno dopo.
Via Torino, quindi: una via di rider su biciclette a pedalata assistita, chiese che chiudono al termine della messa, bancarelle, dolciumi. Là dove c’erano negozi - il Gallery - frequentati dagli zarri anni ’90 oggi non c’è più niente.
Anche le Colonne di San Lorenzo, naturale tappa successiva, vista l’ora sono addormentate. Né pusher, né rider. Quasi nessuna presenza umana e saranno ormai le 12 del mattino, la mezza, ma è un giorno di festa.
Corso di Porta Ticinese è la diretta conseguenza del percorso intrapreso e permette un breve saluto con annesso pellegrinaggio al Bar Rattazzo.
Il Bar Rattazzo è stato un pezzo importante dell’educazione serale per molte generazioni di un tempo giovani milanesi, se è vero - ed è vero - quel che racconta proprio Piero Rattazzo, che da lì sono passati “Sofri, Bompressi, Tobagi, Toni Negri, Pietrostefani, Curcio, Ferrara, Lerner, Mentana (che faceva l'"anarchico"). Ci veniva anche Vallanzasca che era un ragazzo che stava al Parco Vetra che all'epoca non era mica come oggi, era un ritrovo di balordi mica da niente”. Poi ci siamo passati tutti noi. Dopo la morte di Piero il 23 dicembre dell’anno scorso ora è arrivata anche la chiusura ufficiale del locale nel post Covid. Andiamo avanti.
Piazza XXIV Maggio, il casello di Porta Ticinese è uno specchio di quello a Porta Venezia, nel nostro, nel mio cammino. In mezzo al casello seduti ci sono i veri protagonisti sempre in movimento della città, i rider. Non importa con lo zaino di quale servizio di delivery, stanno lì e attendono la chiamata, l’app che si sveglia e li fa partire, si riposano, parlano, sostano, aspettano. Da lì a corso San Gottardo e via Meda è un attimo.
Lasciarsi alle spalle il centro vero e proprio e spostarsi verso una periferia che si riconosce con una specie di sfumatura, perché come accennato scoprendola così, non ci sono momenti di stacco netto a Milano, forse solo tra chi sta all’interno e all’esterno della circonvallazione esterna, perché finché si resta in quella interna alla fine, è tutto uguale.
Non cambia poi molto tra un passo dentro e un passo fuori.
Corso San Gottardo e via Meda danno l’abbrivio verso i margini della metropoli, verso una delle tappe visivamente più spettacolari di questo piccolo tour, lo svincolo di Famagosta, ancora oggi eternato da una targa voluta - e si spera rimpianta - dal sindaco di Milano Gabriele Albertini a inizio anni ’00. Da Famagosta in poi la città di Milano termina e diventa un’altra cosa.
Alla fermata dell’ATM sempre lì, a Famagosta, alcuni conducenti aspettano, parlano, fumano una sigaretta. Il parcheggio di interscambio di è ovviamente vuoto. Vale la pena una volta da quelle parti di fare una piccola deviazione verso il quartiere Sant’Ambrogio, alla Barona, dove c’è una chiesa incredibile: San Giovanni Bono, una piramide di cemento che sa quasi di spomenik in ex Jugoslavia, esposta al mondo dei non fedeli da Guè Pequeno nel video di Trap Phone (2018).
Da San Giovanni Bono in poi, la città svapora di nuovo in maniera impercettibile. Di nuovo verde, ma è un verde secco, tendente verso il giallo, quello di Milano sud-ovest. Una campagna diversa, dove ci sono spesso campi da calcio abbandonati da decenni, dove l’erba è cresciuta intorno alle porte, e poi il quartiere Cantalupa.
Il quartiere Cantalupa è qualche chilometro dopo lo svincolo di Famagosta. È un quartiere residenziale abbastanza isolato, dove si arriva ma da dove, senza una macchina, è difficile, complesso, andare via. Cantalupa lo si vede prendendo l’Autostrada dei Giovi, la A7 che da Milano porta alla Liguria, ma ovviamente nessuno ci si ferma mai. A meno che non voglia fermarsi al mitologico Hotel Alga, ben visibile dalle corsie dell’autostrada.
A Cantalupa c’è un ponte che passa sopra l’autostrada, pontemetallico su cui ovviamente salgo, per scendere a un Autogrill dal lato opposto. Arrivare a un Autogrill a piedi è un’esperienza che mi sento di consigliare, anche perché da quell’Autogrill tornando leggermente indietro verso la Barona, e quindi verso Milano, è possibile imboccare una stradina tra le risaie e le case popolari che porta proprio ad Assago.
Assago: dove c’era da arrivare al mattino, quando ero partito ormai, dieci, undici ore fa. Procedo lungo un fosso pieno di rane e di pesci, dall’altro lato del fosso, verso l’autostrada, c’è uno di quei margini della metropoli colonizzati da pensionati disperati per farci l’orto urbano - o forse non disperati, no? - ma la visione di una tazza del cesso collegata direttamente al fosso, un po’ dà quell’idea.
C’è anche gente che pesca nel fosso, un gruppo di quattro ragazzi.
Per alcuni chilometri ancora si cammina nel nulla: risaie, mezze discariche, altre risaie non irrigate. Potremmo essere a Vercelli finché si arriva quasi ad Assago.
Ci dovrebbe lì un ponte ciclopedonale che riporti il viandante dall’altra parte della tangenziale verso la metropolitana, la stessa linea verde, la stessa M2 delle 6.30 del mattino, ma il ponte non è ancora aperto, quindi serve proseguire verso il Forum per ancora qualche centinaio di metri.
All’arrivo, una volta terminata la traversata di Milano, non ti importa niente, sei felice di esserci riuscito ma non è che la cosa era in dubbio, di sicuro non è che hai capito qualcosa. Il che è a modo suo altrettanto orientale come pensiero - quella cosa della meditazione che dicevamo molte righe fa, no? Sei come prima, ma hai fatto 25 chilometri a piedi.