Ramak Fazel è un fotografo, così lo abbiamo conosciuto a Domus, per cui ha lavorato molte volte. Ma in questo caso è la persona al di là della professione a giustificare la residenza e il workshop che in questi giorni si tiene alla Pejman Foundation: Kandovan a Teheran, a cura di Sheida Gomashchi.

Fazel incarna quelle molteplici identità che derivano dall’aver vissuto in almeno tre Paesi – Iran, Italia e Stati Uniti – il ricominciare da capo ogni volta. Costruire un archivio serve a rimodellare la professione e l’identità; mettere ordine e intessere una rete di relazioni che si cristallizza, tra l’altro, in una collezione di biglietti da visita. Ha deciso che suo archivio, o come lo definisce lui stesso, il “corpus mechanicum”, dovesse restare a Milano, dove ha lasciato un pezzo di sé. “Milan Unit 1994-2009” è diventato una mostra temporanea, e poetica, che si è tenuta a settembre scorso, e un’installazione lunga un anno alla galleria Viasaterna, da lì è tornato temporaneamente, in parte e in una nuova forma nel suo Paese d’origine, l’Iran. È questo muoversi tra un luogo e un altro che offre la possibilità di capire che per Fazel l’archivio è una scusa per riguardare e riprendere ragionamenti e trasformarli, a partire dall’idea che la fotografia, nonostante il cambiamento epocale da analogico a digitale, è sempre uno strumento d’interpretazione e di azione con un valore sociale che travalica il mezzo ma non la sua storia.

L’archivio “Milan Unit 1994-2009” è una raccolta di fotografie, negativi, stampe ed ephemera, raccolti da Ramak Fazel negli anni di lavoro e di vita a Milano, in Italia. Utilizzando il materiale originale in collaborazione con utilizzatori e fornitori locali, “Archive Alive”, è stato prodotto durante una settimana di permanenza presso la Pejman Foundation: Kandovan a Teheran. Oltre a un’installazione, la residenza è composta da un talk e un workshop dell’artista, con la galleria principale sulla strada Kandovan che funge da spazio sia operativo sia di presentazione. In “Archive Alive”, una selezione diversificata di contenuti è stata selezionata dall’archivio e resa disponibile per la consultazione, l’esame e la reinterpretazione lo spettatore e gli eventuali partecipanti al workshop.

Con Archive Alive, la natura vivente dell’organismo archivio viene sottolineata attraverso un esame più critico delle strategie museologiche che hanno sostenuto la presentazione di questo archivio in altre sedi ospitanti. Concepito intorno al volgere del millennio, durante lo spartiacque che ha caratterizzato il rapido passaggio dall’analogico al digitale, questo archivio incarna la volontà di sperimentare, esplorare e preservare la cultura materiale di quella specifica pratica. “Milan Unit” è un tentativo di far collassare la gerarchia, rappresenta lo sforzo per rispondere alla crisi, come una “strategia di sopravvivenza”. Questa risposta al progressivo avvento dell’era digitale e alla conseguente dematerializzazione degli enti a favore della dimensione virtuale, è un impulso radicato all’interno dell’archivio milanese. Altrettanto importante per lo spazio reale (per l’indagine intellettuale) degli archivi pre-digitali è la funzione sociale e teorica di tali spazi. La macchina fotografica è uno strumento sociale; obbliga l’interazione e la partecipazione. La cultura materiale, la produzione, il consumo della fotografia chiede di continuare a riflettere su come facciamo e presentiamo le immagini fotografiche.