Da un lato troviamo nomi consueti, appunto ‘storici’ per il catalogo dell’azienda – come Giulio Iacchetti e Mario Trimarchi – che hanno, rispettivamente lavorato l’uno sull’originale collocazione ad angolo per gli orologi (con Ora In e Ora Out), l’altro ha invece realizzato una serie di oggetti che nasce attorno all’atmosfera astratta e immobile di un luogo magico (La Stanza dello Scirocco).
Quindi, la giovane designer – australiana di stanza a Londra – Abi Alice, che con Infinity Clock ha tradotto l’imput della misurazione del tempo in geometrie regolari e continue che generano un movimento infinito, mentre con Dotty Clock si è ispirata agli antichi sistemi di misurazione. I progettisti alla prima incursione in Alessi sono Daniel Libeskind, per cui il tempo è il labirinto rosso di Maze, e il duo fiammingo Studio Job che con Comtoise rivisita il modello del pendolo comptoise del XVII secolo.
Domus: Come s’inserisce la tipologia dell’orologio a parete nel catalogo Alessi?
Alberto Alessi: La domanda a cui bisognerebbe rispondere è a cosa serve un orologio. Oggi si potrebbe dire che non serve più misurare il tempo perchè ci sono altri strumenti che sono diventati di uso molto più frequente degli orologi. Però gli orologi da parete continuano ad esistere e questo è un grande mistero e probabilmente ha a che vedere – e qui il filo rosso con il resto dell’attività di Alessi – con quella che si potrebbe definire la componente decorativa degli oggetti. Quegli oggetti che ci servono a portare in casa un po’ di fantasia, un po’ del nostro immaginario, un po’ dell’immaginario degli autori che diventa nostro. Esattamente come se fosse una caffettiera, un bollitore, un cavaturaccioli. Così alla stessa stregua un orologio. Devo anche aggiungere, sarà perchè io produco solo questi e non produco cellulari che ci danno una quantità di funzioni infinite, però mi sembra che leggere l’ora su questi oggetti sia più magico e rituale. Più significativa.
Domus: Quale è stata la richiesta rivolta ai designer?
Alberto Alessi: Come al solito, è stata di esprimere il loro proprio immaginario nel contesto Alessi che è un contesto multilinguistico, nel senso che ci sono autori che si esprimono con un linguaggio molto diverso tra di loro. Il fatto che siano questi cinque deriva da una selezione che abbiamo fatto nella prima operazione di ricerca e attraverso designer che in questo momento sono più vicini ad Alessi. Quindi ci sono designer che in qualche modo storici di Alessi come lo stesso Iacchetti oppure Mario Trimarchi, una designer relativamente nuova, Abi Alice, e due designer che fanno la loro prima entrata nel catalogo Alessi che sono Studio job e Daniel Libeskind.
Domus: Quanto deve essere riconoscibile il marchio Alessi in un progetto come questo e quanto si può lasciare spazio alla personalità del designer?
Alberto Alessi:Nel caso delle fabbriche del design italiano, di cui Alessi è un esempio, e che sono un modello industriale a sé, tutto differente da una fabbrica dove ci sia produzione di grande serie, il problema si ridimensiona. Posto che le fabbriche del design italiano sono dei laboratori di ricerca nel campo del design – una volta si diceva delle arti applicate – vuol dire che noi dobbiamo dare per definizione il più ampio spazio possible all’identità degli autori con i quali lavoriamo. La nostra forza, quella che ci permette di vivere e anche di espanderci in giro per il mondo è proprio che in nessun altro luogo c’è una cultura industriale che consente all’autore, cioè al designer, di esprimere, diciamo pure liberamente, la sua identità. Senza per questo negare che esiste un’identità dell’azienda. Proprio perchè noi siamo dei laboratori di ricerca la nostra natura è quella di fare esprimenre gli autori che lavorano con noi. Nei miei – ahimè – oltre cinquant’anni di lavoro non l’ho mai sentito come un problema.
12–17 aprile 2016
Alessi showroom
via Manzoni 12-14, Milano