La mostra cerca di restituire l'incedere con cui la Vreeland ha attraversato la moda del Novecento prima negli anni di Harper's Bazaar e Vogue, poi nel suo ruolo di Special Consultant per il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York, dal 1972. Insieme alle fotografie, agli oggetti prestati dalla famiglia e ai numeri delle riviste che videro pubblicati gli articoli della Wreeland, in mostra anche i capi di Saint Laurent e Givenchy indossati da Vreeland e provenienti dal Metropolitan Museum of Art di New York; alcuni pezzi di Balenciaga, le creazioni più iconiche di Saint Laurent e preziosi esemplari che hanno segnato la moda novecentesca provenienti da prestigiose collezioni private e archivi aziendali.
La mostra aprirà al pubblico dal 10 marzo al 26 giugno 2012 a Palazzo Fortuny, San Marco 3780, Venezia.
In coincidenza con la mostra, il 10 marzo l'Università Iuav di Venezia organizza un convegno internazionale in collaborazione con il London College of Fashion (University of the Arts London) e con il Centre for Fashion Studies (Stockholm University). Il convegno, dal titolo La disciplina della moda fra museo e fashion curating si terrà presso lo Iuav Venezia, Badoer, aula Tafuri, Venezia.
Maria Luisa Frisa
Il titolo di questa mostra, Diana Vreeland After Diana Vreeland, nasce visitando Mayhem, la mostra di Sherrie Levine inaugurata nel novembre dello scorso anno al Whitney Museum di New York. Era presente anche uno dei lavori seminali dell'artista, After Walker Evans, del 1981. After, nell'opera di Sherrie Levine, vuol dire trasformare e ricontestualizzare immagini e oggetti per creare qualcosa di nuovo. Nella mostra, costruita dall'artista come un progetto unitario per definire una costellazione di lavori vecchi e nuovi, quella parola innescava un montaggio che era il punto di partenza per una straordinaria sequenza di associazioni e riflessioni. Associazioni e riflessioni non solo interne alla poetica dell'artista, considerata uno dei massimi esponenti dell'appropriation art, o su un gesto artistico che ha precedenti fondativi nei ready-made di Marcel Duchamp o nelle azioni dell'Internazionale Situazionista, ma anche rispetto alle declinazioni di un atteggiamento condiviso da molti artisti delle ultime generazioni, cioè tutte quelle pratiche di editing e montaggio che hanno trovato una precisa definizione nella teorizzazione della postproduction compiuta da Nicolas Bourriaud.
Diana Vreeland è un personaggio così carismatico e unico nella storia della moda da correre il rischio di rimanere congelata nel racconto della sua incredibile vita tra Parigi, Londra e New York. Fissata, ancora, quella vicenda straordinaria, nella continua riproposizione delle sue frasi e delle sue azioni memorabili. In un racconto molto spesso stereotipico che alla fine non si preoccupa troppo di approfondire la reale importanza dell'operato di Diana Vreeland prima come fashion editor di Harper's Bazaar e direttore di Vogue America, poi come fashion consultant del Metropolitan di New York.
"Archeologo delle cose a venire" è un ossimoro meravigliosamente evocativo che Daniel Birnbaum utilizza per parlare del lavoro del curatore e, più in particolare, del lavoro di Hans Ulrich Obrist nella postfazione alla raccolta di interviste curata da Obrist medesimo nel 2008 e significativamente titolata A Brief History of Curating. Il gesto del critico, l'azione del curatore sono atti che nel presente progettano e raccontano seguendo un itinerario personale, agito dalle suggestioni di cui risuonano materiali esistenti. Sono le idee, sono le parole, sono gli oggetti, sono le immagini a ricomporsi nella dimensione della messa in scena di uno statement. Per generare una visione innovativa il curatore agisce su elementi sedimentati, che appartengono al passato, che sono stati momentaneamente dimenticati, messi fra parentesi, ma che sono in attesa di essere riattivati, rimessi in circolo attraverso uno sguardo che è in grado di consegnarli ancora una volta al futuro, rinominati nella loro nuova collocazione. Il critico-curatore possiede la capacità di raccontare, ma nel raccontare il suo progetto e le suggestioni generate dai suoi materiali si esprime grazie a quel "capire facendo" che è, oggi, parte fondamentale di ogni processo creativo.
Selling Culture, il libro di Debora Silverman, è un attacco durissimo al lavoro di Vreeland al Met, che colloca le mostre da lei realizzate nell'orizzonte della "nuova aristocrazia del gusto nell'era reaganiana". Si legge nell'introduzione, a proposito della retrospettiva dedicata a Yves Saint Laurent "I visitatori della mostra dedicata a Saint Laurent hanno trovato l'esposizione al museo curiosamente indistinguibile dai display dedicati allo stesso designer nei department store più alla moda, come Bloomingdale's e Neiman-Marcus. Le gallerie del Met non erano organizzate secondo uno sviluppo cronologico, come si addice alla retrospettiva di un artista. [...] Invece, le gallerie erano organizzate secondo una divisione in colori, e attraverso la suddivisione 'senza tempo' che struttura la giornata di un certo tipo di donna [...]. La mostra di Vreeland dedicata a Saint Laurent ha avuto successo, non in quanto operazione culturale museale, ma in quanto gigantesca campagna pubblicitaria per l'haute couture francese [...]"5. Un anno dopo, per Art in America, Robert Storr, recensisce il saggio di Silverman e attacca il lavoro di Vreeland al Met, fin dal titolo del suo articolo, "Unmaking History at the Costume Institute". "Puntando al più vasto pubblico possibile, anche al Metropolitan segue ancora lo slogan del merchandising che un tempo l'ha guidata a 'Vogue': DÀ LORO CIÒ CHE NON HANNO MAI SAPUTO DI VOLERE", scrive Storr che critica aspramente l'opulenza e l'eccesso visionario degli allestimenti di Vreeland perché sembrano dare maggiore enfasi all'atmosfera piuttosto che al contenuto informativo.
Il gesto editoriale di Vreeland afferma il potere della doppia pagina, che sembra così diventare anche lo strumento privilegiato per fissare la mostra – evento temporaneo per eccellenza, impossibile da archiviare – e la sua grammatica (le foto di Duane Michals nel catalogo della retrospettiva dedicata a Yves Saint Laurent non riprendono l'allestimento, ma ne propongono un'ulteriore versione, con drappeggi che annullano il set, avvolgono i manichini e alludono alla genesi in toile degli abiti che accolgono). La mostra di moda così agisce non solo cristallizzando e monumentalizzando il passato, ma anche alimentando e definendo nuove tendenze, perché è un dispositivo che trattiene e simultaneamente amplifica la visione e la voce del curatore. Come suggerisce il titolo dell'articolo apparso sul New York Magazine il 12 gennaio 1976, è questione di exhibitionism.