Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1066, marzo 2022.
Per molto tempo Parigi è stata per me soltanto una casa all’angolo tra rue Lamarck e rue Becquerel, nel XVIII arrondissement. Era una casa in salita, ed era la ricompensa finale di un piccolo scarpinare tra il métro e la casa.
Il portone, il codice sulla pulsantiera preludevano poi all’ultimo tratto: i primi cinque piani in ascensore e poi quegli ultimi due misteriosi, per accedere ai quali serviva una chiave da inserire in una toppa sotto lo zero. Al quinto scendevano tutti, al settimo arrivavamo in pochi, la porta si apriva sull’universo promiscuo, crepuscolare delle chambre de bonne.
A ripensarci ora, a poco più di dieci anni, non mi è chiaro se mi rendessi conto di lasciare Parigi fuori da casa, di ignorarla a tal punto da non conoscerla affatto. Ci ero finito in pieno naufragio, una storia d’amore che dopo otto anni franava e la mia famiglia d’origine che alle spalle continuava un’opera di ordinaria, quotidiana, implacabile autodistruzione. E soprattutto un girare a vuoto estenuante, a piedi per le vie di Torino e poi in macchina tra le colline astigiane, dove mi ero messo in testa, per chissà quale ragione, che avrei finalmente trovato la pace.
Era come un crepitare del fuoco dentro un camino, un conversare piano, di mezze parole dette tirando il colore, ripassando una linea.
Vedevo case con affitti temporanei, col proposito di andarci a scrivere un romanzo di disamore e di guerra, e di piangermi addosso. Ma ogni alloggio era un giro in più di malinconia: le colline che vagheggiavo erano, alla resa dei soldi, palazzine con vista su parcheggi e cemento. Parigi era arrivata dunque insperata, una chiamata al telefono di un amico che mi aveva preso vicino allo sconforto e la sua offerta di una mansarda (“Invece di cercare bilocali nella campagna piemontese, perché non vieni a Parigi?”). Ci ero arrivato così, una domenica sera, con il camminare lento dei perdenti, la testa bassa sulla strada e quell’interpretazione delle cose formulata sempre a perdere: salivo a Montmartre verso una vita nuova ma mi trascinavo come chi batte in ritirata.
Ho vissuto in quei 30 m2 come al timone di una nave che in realtà era un edificio costruito a metà degli anni Venti ben piantato a Parigi. La mia giornata era scandita dalle poche righe messe insieme al computer, e dalla campanella di una scuola elementare di quartiere che ogni ora tirava le somme del poco o niente che avevo scritto. A ogni ora i bambini esplodevano in un boato di voci all’unisono che era come una granata sul foglio: cancellavo tutto e ricominciavo da capo. L’unico movimento era, per me, fare e disfare lo spazio con piccoli esercizi di metamorfosi: apparecchiare e sparecchiare l’unico tavolino che c’era, farne prima una scrivania poi il tavolo di una cucina poi una superficie d’appoggio per i cuscini. A metà mattina camminavo fino a una piscina comunale, contavo le vasche che nuotavo, e ogni volta che mi rovesciavo in una virata mi sembrava che quello fosse l’unico modo in cui riuscivo ad andare a capo davvero. Ogni giorno 50 righe scritte nell’acqua, che nessuno avrebbe mai letto. In cui neppure io, che le spaccavo battendoci sopra coi piedi, sapevo che cosa era scritto.
Di quel periodo resta un romanzo e il tempo speso senza scrivere niente. Il tempo più importante l’ho passato tutto al piano di sotto, dentro la casa di Valerio e Camilla Adami. Era stato lui a invitarmi e a offrirmi la loro mansarda. Gli piaceva il pensiero che mentre dipingeva con i colori, sopra la sua testa ci fosse qualcuno che negoziava con l’invisibile tentando di stanarlo a parole. Io scrivevo ben poco, e lui invece procedeva senza pause, ogni pomeriggio davanti alle tele, due assistenti, uno per lato, France Culture accesa, e così via fino alle nove di sera. A metà pomeriggio scendevo anche io e mi sedevo in quell’atelier ricavato dove originariamente c’era una sala: due balconi su rue Becquerel e quei tre cavalletti su cui si avvicendavano, e si rendevano per così dire palesi, i sogni che Adami faceva da sveglio. Credo di aver imparato, sul misterioso mestiere di scrivere, di più da quel chiacchiericcio pomeridiano davanti alle tele che da decine di libri letti per capirci di più.
Di quel periodo resta un romanzo e il tempo speso senza scrivere niente.
Era come un crepitare del fuoco dentro un camino, un conversare piano, di mezze parole dette tirando il colore, ripassando una linea. Cose di poco conto, aneddoti, e poi la voce del mondo che arrivava dalla radio. Era la vita che succedeva né prima né dopo il momento dell’arte, ma insieme, caduta lì e mescolata con il colore. E poi bloccata per sempre, invisibile ma presente come un segreto pronunciato ogni volta da dietro ogni figura, sul disegno.
Ho scritto poche pagine in molto tempo, e quelle che non ho scritto sono state di gran lunga le più importanti. Sedere lì nello studio di Valerio Adami, scaldarmi a quella vita stesa senza fretta a pennellate da lui e dai suoi due aiutanti, girare per una casa in cui di colpo, da una finestra sbucava il Sacré Coeur e poi subito dopo spariva di nuovo, e soprattutto tacere: trattenere parole è stato il mio modo di scrivere un libro che poi si è scritto da solo da un’altra parte, in case molto distanti da lì.
Quel romanzo, che s’intitola Ogni promessa, adesso esiste e racconta, credo, di una sconfitta, di una guerra finita che non finisce, e di quanto si annida dentro il silenzio. In quelle pagine, nella vita di chi racconta la vicenda, ogni ora suona la campanella di una scuola elementare. Suona e subito dopo c’è un vociare di bambini che escono in cortile e poi, dopo poco, ritornano in classe e tutto torna a tacere. Ci ho messo anni a capire da dove arrivasse quella scuola, perché mai fosse finita dentro la mia storia, e forse lo capisco veramente solo adesso.