Abbiamo conversato con Oki Sato – fondatore del marchio giapponese Nendo – di come essere un perfetto minimalista, come rimanere autentici quando si gestisce una grande azienda e del suo prossimo passo: l’architettura.
Come è nato Breeze of Light?
Abbiamo avviato un dialogo con Daikin su come esprimere l’aria, qualcosa che non si può realmente vedere o sentire, e che incarna la filosofia di base del marchio. Così mi è venuta l’idea di una stanza in cui si possa percepire il soffio della brezza senza usare l’aria ma solo luci e ombre.
Quando ho iniziato a giocare con la pellicola polarizzante ho notato che se ne hai una a fiori e un riflettore con un altro filtro polarizzante davanti e lo sposti, non serve modificare la potenza della luce per cambiare la quantità di ombra proiettata sul pavimento. È interessante, perché di solito per avere più ombra è necessaria più luce, e viceversa.
In questo caso l’ombra non è realmente influenzata dall’intensità della luce, quindi con questa tecnica abbiamo finito con l’avere diciassettemila fiori tutti in una posizione e direzione specifica: dovevano essere orizzontali per creare un paesaggio, e ogni singolo fiore ha un’altezza diversa. L’idea è nata a luglio dello scorso anno, ma in realtà abbiamo fatto molti test a Tokyo e la costruzione ha richiesto due mesi interi! Siamo arrivati qui a Milano a febbraio e c’erano più di venti designer al lavoro. Sembra strano doverlo smantellare in meno di una settimana, ma penso che questa sia la magia del Salone.
Oki Sato, Nendo: “Non in molti si sono accorti delle ombre che si muovono”
Con “Breeze of Light”, Nendo torna alla Milano Design Week con un’installazione immersiva e poetica per Daikin, una sinestesia che ci fa sentire l’aria attraverso gli occhi.
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- Marianna Guernieri
- 14 aprile 2019
Foto Andrea Raffin
Foto Andrea Raffin
Foto Andrea Raffin
Foto Andrea Raffin
Foto Andrea Raffin
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Foto Andrea Raffin
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Se ti avvicini ai fiori l’esecuzione appare maniacale: sono incollati al gambo di metallo, ma in modo quasi invisibile.
Sì, abbiamo incollato ogni singolo bastoncino di metallo a mano e abbiamo prodotto i pannelli in Giappone con fori tagliati al laser di 0,5 mm, altrimenti le asticelle si sarebbero piegate. Quindi tutto è fatto con la carta in modo tale che la sovrapposizione non presenti giunti visibili: se avessimo usato la vernice avremmo intasato tutti i fori, quindi alla fine abbiamo scelto la carta. È come un enorme modellino architettonico. Per i fiori più alti abbiamo usato bastoncini metallici da 0,7 mm di diametro, che non si piegano. Abbiamo fatto un sacco di test, una cosa folle. Ed è un peccato che non molte persone notino che le ombre si muovono.
Hai una buona percezione di quanto accade quando lo vedi dall’alto. Questa moltitudine di oggetti colpisce l’occhio. E la ripetizione degli elementi è qualcosa di ricorrente nel tuo lavoro. Da dove proviene?
Mi piace iniziare dalla piccola scala, da un’idea minuscola che cerco di espandere negli oggetti e nello spazio. A volte ingrandire molto le dimensioni non funziona e volevo mantenere la scala del fiore, l’ombra e il riflettore. Alla fine abbiamo bisogno di ripetere questi elementi per creare lo spazio. Penso che sia solo un metodo che usiamo perché partiamo da un’idea piccola.
Sei nato minimalista o si tratta un esercizio difficile e costante che devi fare di continuo?
Lo faccio in modo molto naturale, forse perché rispetto più il concetto, la storia dietro l’oggetto piuttosto che l’oggetto stesso. Invece di essere affascinato dai colori o dalle forme, quello che cerco è la storia. Quando voglio raccontare qualcosa, l’oggetto in primo piano non deve risaltare troppo, quindi non voglio troppe decorazioni o elementi che distraggano dalla storia dietro l’oggetto. Forse è qualcosa di simile alla cucina o al cibo giapponese. Prendiamo ad esempio il tofu: è solo un blocco bianco, qualcosa di molto minimale, ma il processo di produzione richiede molto tempo, c’è molta tecnica dietro quel processo. Lo stesso con il sushi. Il sushi è solo riso con pesce crudo, ma la tecnica con cui tagli e prepari il pesce richiede molto tempo. Penso che sia simile a quello che sto cercando di fare con il design. Rendo l’idea?
Prendiamo ad esempio il tofu: è solo un blocco bianco, qualcosa di molto minimale, ma il processo di produzione richiede molto tempo, c’è molta tecnica all’interno di quel processo
Sì, ma quando crei un oggetto sei ancora nell’atto di produrre qualcosa, quindi c’è sempre il rischio di esagerare. Qual è il tuo approccio?
Questa è una buona domanda. È qualcosa a cui penso quasi ogni giorno: fare troppo poco è troppo poco, fare troppo è troppo. Trovare un buon equilibrio è una delle cose più importanti per un designer. È molto difficile.
Nendo sarà mai barocco?
Forse un giorno, quando invecchio (ride).
In uno studio grande come il tuo, come preservi la purezza dei concetti, l’autenticità delle idee?
Non c’è nulla di magico in questo, cerco di non lasciare mai andare il concept, qualunque cosa accada, perché, sai, ci sono le necessità del cliente, il budget e molte altre cose che si frappongono tra te e l’idea. Ho sempre la sensazione di doverla tenere ben stretta. Si tratta di lavorare su ogni singolo dettaglio.
Anche se nel mio studio lavoro con circa quaranta designer, controllo ogni singolo prototipo, ogni giorno ho incontri con quasi tutti i designer, quindi passo con loro circa sei o sette ore al giorno. Quando sono a Tokyo faccio riunioni, riunioni e ancora riunioni con i miei designer, e non per parlare solo del concept generale, ma di come lavorare e perfezionare ogni singolo dettaglio. Certo, a volte è un rischio.
Quando lavori troppo sui dettagli, a volte perdi di vista la storia nel suo insieme. È come avere uno zoom: vado avanti e indietro dal generale al particolare. Avere così tanti progetti in una volta sola ti permette di dimenticarli per qualche ora o qualche giorno, così quando torni hai sempre la mente fresca. Inoltre, quando qualcosa non funziona in un progetto, puoi dedicarti a un altro: è come un puzzle, una costellazione di stelle che tu non fai altro che collegare, e hai come risultato delle belle storie.
Non penso che i momenti speciali generino idee speciali: sono i momenti di noia che lo fanno
Cosa dovrebbe esprimere il design?
Immagino che abbia a che fare col cambiare il modo di vedere le cose. Una nuova prospettiva che cerco di offrire ai miei clienti o alle persone che interagiscono con i miei pezzi. Ad esempio, dopo aver visto questa installazione penserai alla luce e all’ombra in modo diverso. Per un designer è importante offrire questi momenti. Penso che la differenza tra arte e design sia che il design deve risolvere un problema di qualche tipo o perfezionare qualcosa nella vita di tutti i giorni, anche se si tratta di qualcosa di molto piccolo.
Il tuo lavoro si colloca tra design e arte.
Beh sì, è molto difficile dirlo perché questa installazione non risolve davvero alcun problema... in realtà ne sta generando un sacco! (ride). In un certo senso allarga la mente delle persone, quindi è molto importante. Di recente non stiamo solo assumendo designer ma nel nostro studio lavorano anche scienziati e ingegneri, e questi ragazzi ci aiutano davvero a creare ciò che facciamo. Nello studio i confini stanno sparendo.
Dove si collocherà il tuo studio in futuro?
Non ne ho idea al momento. È la prima volta che lavoriamo su un software per controllare l’aria e non volevo fare qualcosa di troppo tecnologico o della media art, ma con l’aiuto di questa tecnologia siamo in grado di controllare l’effetto complessivo. Per me è molto importante che un progetto abbia un aspetto naturale. Deve avere un elemento giocoso e amichevole e non apparire troppo digitale.
Ora stiamo cercando di espanderci verso l’architettura. Stiamo cercando di trovare un legame tra arredamento, interni e architettura e cercando di scoprire nuovi modi di produrre architettura.
Qual è il tuo rapporto con l’architettura?
È una cosa totalmente nuova per lo studio. Un progetto a cui stiamo lavorando in Giappone è una casa per il fine settimana fatta di blocchi di cemento prefabbricati a forma di anello, molto economici. È quasi come un design del prodotto. Stiamo lavorando con i tecnici per assemblarli e creare spazi per vivere, trovare nuovi modi di costruire architettura. È eccitante. In Giappone ho studiato architettura, poi sono passato al design in occasione del mio primo Salone del Mobile, nel 2002, e ora sto lentamente cercando di avvicinarmi all’architettura da un altro punto di vista. Non sono sicuro che funzionerà.
Che cosa deve avere la casa Nendo?
Emozioni. La concepisco come un mobile, in un certo senso. Non sto dicendo che progetterò ogni singola maniglia, ma non trovo molto interessante cercare semplicemente le cose in un catalogo. Sto già progettando spine e interruttori, elementi di design funzionali per la casa.
Hai progettato di tutto, la tua produzione è una delle più vaste nel settore del design. Da dove arriva l’ispirazione?
Viene semplicemente dalla vita di tutti i giorni. Non penso che i momenti speciali debbano necessariamente generare idee speciali. Penso che i momenti di noia ispirino, così come la routine di tutti i giorni - svegliarsi, lavarsi i denti – che riporta a zero la mia mente, mi permette di svuotarmi ed essere centrato. Quando lavori a tanti progetti insieme puoi perderti. Facendo le cose di ogni giorno, sono in grado di tornare a zero e avere sempre una mente fresca. Non sono le grandi cose a creare un grande design, ma le piccole cose, che per me sono davvero importanti.
- Breeze of Light
- Daikin
- Oki Sato/ Nendo
- Tenoha, via Vigevano 18, Milano
- Milano Design Week 2019