Forse l’immagine più nitida l’ha data Piero Lissoni. “La Design Week”, ha risposto al New York Times il designer milanese, “per me è come una bella performance. Ogni anno scopro nuove cose. E’ un invito senza limiti a Disneyland”. Veterano del Salone e quintessenza del Made in Italy, Lissoni ama le provocazioni intellettuali ma il suo occhio assoluto prevale sempre.
Dimostrando che forse non è stato un caso che l’inaugurazione della 62ª edizione della kermesse milanese sia coincisa con il tributo che Triennale di Milano e Fondation Cartier hanno voluto per Alessandro Mendini, “drago” dalle tante dimensioni ma soprattutto intellettuale che non nascose mai il suo desiderio segreto: essere Walt Disney. Ovvero un creatore di fiabe, di mitologie, di mondi altri belli e rassicuranti con cui sostituire quello antiestetico e faticoso che ci è toccato in sorte.
La Design Week 2024 ha dimostrato che l’artificio, il surreale, il simulacro sono la quintessenza dell’umano, la sua caratteristica principale di essere simbolico che tramite la creatività si libera dalla schiavitù della natura.
L’evoluzione del design come disneylandizzazione, nel senso di riscrittura in questo caso positiva e ironica del mondo, è un dato di fatto della storia di questo artificio tipicamente italiano, che trova le sue origini concettuali nel “pensiero di figura” visibile al massimo grado alla Pinacoteca di Brera e quelle materiali nella filiera produttiva della Brianza, che nel Novecento si cristallizzano in alcune botteghe grazie alla visione di imprenditori fuori dall’ordinario che le trasformeranno in marchi, o come si dice adesso, brand.
Il design è quindi ideologia pura che grazie al processo (preindustriale e postindustriale) si materializza, colonizzando l’immaginario globale e costruendo un mondo migliore di quello che ha ricevuto. Ma qui sta il bello: ogni designer, ogni brand, segue la propria traiettoria che corrisponde a una precisa weltanschauung. Ogni designer usa la creatività per dare risposte non a tutte le domande ma solo a quelle che lo interessano. In questa edizione 2024 del Salone del Mobile questo dato è lampante dagli stand alle luci, dalla comunicazione alle hostess, dalle istallazioni alle cene. I marchi del design hanno accelerato la loro riscrittura del mondo, rispondendo ai nuovi bisogni dell’abitare, del dormire, dell’illuminare, del cucinare, del lavorare ma solo per quello che gli è interessato, tirando fuori la nostra scintilla divina e trasformando la realtà da “come è” a “come dovrebbe essere”. Secondo loro, però.
In questo senso, la Design Week è stata davvero una disneylandizzazione di Milano e del mondo, ma non nel senso negativo dell’antropologo Marc Augé e soprattutto dell’economista Sylvie Brunei, che la vedevano come lo spaccio di simulacri e non-luoghi di pura evasione, che trasformano le città in piattaforme ludiche di comunità di consumatori dove il vero sarebbe, per dirla con Guy Debord, solo un momento del falso. Al contrario, la Design Week 2024 ha dimostrato che a Milano l’artificio, il surreale, il simulacro sono la quintessenza dell’umano, la sua caratteristica principale di essere simbolico che tramite la creatività si libera dalla schiavitù della natura. Un’esperienza sovversiva, un rovesciamento radicale, un’attività liberatoria e per certi versi orgiastica.
A livello di cronaca, l’edizione della Design Week che oggi si conclude ha registrato un dato importante: l’accelerazione della colonizzazione che la moda sta operando su tutti gli ambiti della realtà. Da tempo il “sistema della moda” funziona come un gigantesco hedge, che come nella Storia infinita di Michael Ende si sta prendendo tutta la realtà. Questa logica, che riflette quella dei fondi globali che possiedono le maison più importanti, fino a ieri si esercitava nella dissolvenza di barriere e ambiti di creatività vicini all’esperienza fashion come l’arte, il cinema e la musica. Da qualche anno invece la moda ha deciso di avanzare nel mondo del design, che le era estraneo, assumendo una forma decisa e spesso aggressiva perché salvo casi rari e illuminati per i fondi il design è il contrario di quello che è per gli imprenditori del design: un mezzo e non un fine.
Primi segnali di questa tendenza erano stati preconizzati dalla pratica del contract, soluzione ideale per massimizzare competitività e risorse ma che riducendo il processo creativo a un unico contractor rappresenta a un cambiamento radicale dell’approccio multidisciplinare al progetto, destinato ad operare così un morphing irreversibile nella natura del design. Allo stesso modo procede la portata degli eventi messi in campo dai brand della moda a Milano nei giorni scorsi, operazioni di impatto visivo a budget difficilmente raggiungibile dalle aziende tradizionali del design, prive di quei mezzi ma soprattutto concettualmente ancorate a una logica di qualità del prodotto, che rispondono quindi o con alleanze di difficile gestione o con l’esclusione dal circuito globale.
La Design Week per me è come una bella performance. Ogni anno scopro nuove cose. È un invito senza limiti a Disneyland.
Piero Lissoni
Non potremmo però salutare questa 62 edizione del Salone del Design senza una riflessione finale. Nella fantasmagoria di eventi, incontri, suggestioni e giro d’affari – che dalle stime sarà un record - ma soprattutto nella capacità dei prodotti di generare un nuovo immaginario continua ad esserci un ospite assente. E’ il simbolico, l’ospite che per secoli era stato invece il protagonista unico e assoluto della ricerca di costruzione di quelli che oggi si chiamano componenti d’arredo.
Oggi tutti i prodotti e in particolare le eccellenze del Salone di Milano celebrano la qualità, la sostenibilità, la performance, l’economicità e tutte le parole d’ordine della nostra società postmoderna. Ma non è questa la vera origine degli oggetti, a partire da quella cadrèga a cui i milanesi, e non solo loro, sono molto affezionati. I primi esempi di sedie risalgono all’Egitto, dove non erano destinate a tutti ma solo al faraone e ai suoi alti funzionari, sacerdoti, generali. Scopo della sedia non era la comodità o il costo ma il simbolo. Le sedie erano un linguaggio, di autorità e prestigio, di rango e di ruolo e anche la loro estetica era funzionale a questo, come dimostrano le raffigurazioni monumentali di Ninive, antica capitale dall’Assiria, e del Partenone, ad Atene, dove si riconosce Zeus adagiato su una sedia quadrata.
Nella simbologia romana c’era la sella curulis, un sedile pieghevole incrociata che rappresentava il potere giudiziario sia nel periodo repubblicano sia ai tempi dell’Impero, riservata alle alte cariche pubbliche come pretori e consoli. I Cristiani non erano da meno dei loro persecutori: a loro si deve la sedia gestatoria, un (brutto) trono mobile su cui il Papa veniva portato a spalla durante le cerimonie pubbliche. Anche nei secoli bui del Medioevo, che poi non furono bui per nulla, le sedie erano il contrario perfetto dell’uso e della democraticità, riservate ai re, agli aristocratici e agli alti prelati come simbolo del loro ruolo nell’architettura della società e del sapere, oltre che del potere. E la plebe? Si accontentava di panche senza nessuna pretesa, di nessun tipo. Tantomeno di design.
Per Jacque Lacan simbolico e immaginario sono le dimensioni che definiscono il nostro reale di soggetti, che organizzano l’esperienza dell’essere umano. Il simbolico è il registro del linguaggio, un ordine sovraindividuale che anticipa la dimensione dell’immaginario. Ambito del simbolico è l’Altro inteso come luogo del linguaggio e della cultura, dove s’innesta lo scarto tra narrazione e gioco, tra gruppo e singolo, permettendo l’emersione nel soggetto di un sapere insaputo. L’immaginario è invece il registro delle identificazioni e del narcisismo, dell’Ego e delle relazioni intersoggettive. È a questo livello che il soggetto assume come propria immagine l’altro speculare così come viene descritto da Lacan nella fase dello specchio. All’interno del gruppo ha a che fare con l’identificazione narcisistica tra i diversi membri alla base del transfert orizzontale.
Ebbene, la scomparsa del simbolico nell’immaginario che il design rende evidente dice molto del nostro reale, ovvero dello stato in cui viviamo. Reale come dimensione dell’impossibile, essendo ciò che resiste sia alla cattura immaginaria che alla presa del simbolico e del linguaggio. Del Reale continuiamo a non avere padronanza. E questo è forse l’eredità più importante della Design week.