La prima volta che sono andato al Salone a Milano è stato nel 1976. Fu un anno buono per Mario Bellini che aveva lanciato la sedia Cab per Cassina; anche se a quei tempi, da ventiquattrenne inesperto, cosa ne sapevo? Ma adoravo la città, i suoi palazzi color ocra e la sua eredità modernista. Andavo alla ricerca dei suoi cortili nascosti e giardini verdi appena visibili dalla strada. Adoravo i tram color biscotto, con quella meravigliosa freccia a indicare l'entrata e i pavimenti in gomma Pirelli della metropolitana.
Fuorisalone: bentornati in una Milano sempre nuova
Per la prima volta dalla pandemia, torna la tradizionale edizione primaverile del Salone del Mobile: ma se non visitate Milano dal 2019 o non ci siete mai stati, troverete una città post-covid radicalmente cambiata nell’architettura.
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- Deyan Sudjic
- 13 aprile 2024
Una volta tornato a Londra, fu difficile spiegarne il fascino. La Gran Bretagna era ancora ossessionata dal fascino toscano. Se là conoscevano delle città italiane, erano Roma o Venezia, che è quanto di più distante da una città contemporanea. Cercavo di spiegare lo charme delle qualità nascoste di Milano, piuttosto sicura di sé e austera. Da un certo punto di vista questo suo carattere è il prodotto di un isolamento dalla globalizzazione e della fiducia nella propria cultura architettonica − interrotta solo da due enormi eccezioni: la Stazione Centrale di Stacchini e il Palazzo di Giustizia di Piacentini, le cui aule furono fortificate nel 1976 contro il terrorismo. Da un altro punto di vista, i decenni caratterizzati da quella che può essere educatamente chiamata una mancanza di direzione civica avevano lasciato grandi aree della città intrappolate in uno stato di degrado tale da richiedere molti altri decenni per essere affrontato. Se non succede nulla, allora almeno non succede nulla di brutto.
Guardando alla città adesso, quasi mezzo secolo più tardi, è quasi difficile riconoscerla. Se ci si trova nei pressi di Porta Nuova, di Porta Genova o nel polo fieristico riqualificato che ora si fa chiamare col nome CityLife, si potrebbe avere l’idea che Milano abbia approfittato del lockdown, quando il mondo guardava altrove, per germogliare un’improbabile coltivazione di nuove torri che minano la presenza rassicurante del grattacielo Pirelli e Velasca.
L’ondata è iniziata con i 39 piani del Palazzo Lombardia di Pei Cobb Freed seguito dai 231 metri di altezza della Torre UniCredit, forse il grattacielo meno convincente di César Pelli. CityLife ha completato l’ultima delle sue tre grandi torri, il grattacielo dalla forma incredibilmente fallica occupato dalla società multinazionale di servizi di revisione e consulenza PwC. Ancora da costruire, e a quanto pare inevitabile, è invece il Portico, l’ennesima struttura attira-attenzione progettata da Bjarke Ingels.
Le torri di Ponti e BBPR non avevano lo scopo di sfidare il Duomo e i suoi 108 metri di altezza ma quello di accompagnarne la cuspide traforata. I successori deformi di queste due torri sembrano essere un tentativo deliberato di prenderne a calci le tracce, di compromettere la reputazione di Milano come città moderata ed educata che iniziò a diffondersi con il razionalismo degli anni Trenta.
La città aveva due protezioni: chiusura e paralisi. Ora queste sono svanite. Mentre la città emerge dall’abbandono postindustriale e da un sistema di progettazione congelato che ha impiegato quasi 50 anni per arrivare a una visione di quello che la città potrebbe essere, Milano può ringraziare il fatto di non essersi atrofizzata come altre città italiane. Ma ha pagato un caro prezzo per la sua apertura.
La maggior parte delle eruzioni architettoniche più intenzionali di Milano sono il prodotto di trapianti da altri luoghi. Ma non tutti. La vista da Corso di Porta Nuova verso Piazza della Repubblica è arrivata ad assomigliare a una scena di un remake di War of the Worlds con un alieno ostile che incombe sulle strade rintanate della città ottocentesca sotto forma di Torre UnipolSai. È opera di Mario Cucinella, tornato in Italia dopo anni di assenza con il suo mentore Renzo Piano. E c’erano già stati due enormi esempi del rifiuto di Milano nei confronti del suo tradizionalmente contenuto linguaggio architettonico che hanno preso la forma della nuvola metallica di Mario Bellini nell'ex Fiera e del progetto di Fuksas a Rho.
Bisogna dire che tre degli edifici più interessanti di Milano non sono stati progettati da italiani e mostrano senz’ombra di dubbio che guardando all’estero c’è da guadagnarci. Due di questi edifici sono opera di donne, un dettaglio che cito solo perché mi ricordo ancora di aver sentito un membro di una scontrosa giuria presieduta da Peter Cook affermare che una donna asiatica non avrebbe mai potuto capire la natura di un cortile italiano appena prima della votazione in cui è stata scelta Sanaa per il progetto del Nuovo Campus Bocconi. E poi c’è la senz’altro impressionante trasformazione compiuta da Oma nell’ex distilleria per Fondazione Prada. Il ritmo del cambiamento non dà segno di voler rallentare. Il villaggio olimpico nel vecchio scalo di smistamento di Porta Romana e i vicini complessi firmati Antonio Citterio e Patricia Viel, una volta completati, consolideranno la trasformazione di quella parte di città già iniziata da Prada. Questi ultimi sono, però, perlomeno radicati nell’idea di una città dalla sobrietà architettonica.
Immagine di apertura: Vista panoramica del nuovo skyline. Foto di UMB-O su Adobe Stock