“Traditions are just peer pressure from dead people”, racconta Greg Rowland alla platea che lo ascolta rapita. Detta da lui, l’affermazione fa riflettere. Rowland è infatti uno degli ultimi tre carrai - wheel makers in inglese – rimasti in Inghilterra.
Dal suo laboratorio nel Devon, in un angolo bucolico dell’Inghilterra, produce e ripara le ruote delle carrozze in legno, portando avanti un expertise familiare che va avanti, generazione dopo generazione, dal 1331. Sua maestà la Regina Elisabetta l’aveva nominato suo carraio personale: niente, forse, può fare pensare a qualcosa di più tradizionale e ancestrale. Eppure, il diniego di Rowland di considerare la sua arte – o scienza? – come un dominio immutabile la dice lunga sulla visione che ogni maker ha di sé: quella di considerarsi, a prescindere da tutto, come un innovatore.
Il maker, vuole la vulgata del mondo a cavallo tra design e fablab – ossia i celebri laboratori per l’auto fabbricazione dotati tra gli altri di stampanti 3d e di CNC – è un innovatore che coniuga innovazione tecnologica e manuale attraverso la realizzazione di artefatti molteplici. Una definizione necessariamente ampia, aperta a mille accezioni e a mille modi legittimi di intendere questa pratica.
Il Making non c’entra con il buon making o il cattivo making, perché è un fare attivo. Making In permette di parlare dell'importanza di continuare a celebrare il making attivo.
Joseph Walsh
Il designer Joseph Walsh, che è poi colui che ha dato a Rowland, e a tanti altri maker, un palco da cui parlare del ruolo e della funzione di ognuno di questi inclassificabili artefici, si è fatto un’idea precisa. “Il making significa imparare dal passato per poi aggiungere un tassello personale da condividere con gli altri, seguendo una circolarità che non si arresta”, ci dice dal suo studio in un altro angolo di bellissima campagna, stavolta dalle parti di Cork, nel sud dell’Irlanda.
È qui che Walsh è nato e che ha scelto di restare, nonostante le sirene del design internazionale gli abbiano fatto accarezzare, e poi abbandonare, l’idea di spostarsi da un’innegabile periferia, l’estremo ovest dell’Europa, verso quelle città e distretti percepiti come il centro di gravità della progettazione mondiale. Ed è sempre qui, più precisamente a Fartha, che nel 2017 ha fondato il festival Making In, un raduno annuale di makers che ha come obiettivo la condivisione di conoscenze ed esperienze personali di altissimo profilo, ognuna ancorata dietro un settore specifico.
L’edizione 2024 (tenutasi il 6 e 7 settembre e intitolata Circle) si è sviluppata in continuità con la visione di Walsh, ispirandosi sia alla circolarità del tempo sia, nelle parole del critico Glenn Adamson, qui in veste di moderatore, alle “embracing, inclusive social forms in which makers thrive”.
La platea, anch’essa internazionale e all’unisono come in un TED talk, da questa circolarità sembra già essere stata catturata. Ma sono gli stessi makers a confermare la necessità di un confronto ibrido tra pari, il beneficio di fare parte di un parterre interdisciplinare: la settima edizione di Makin In ha permesso questo confronto con, fra i molti, il premio Pritzker Shigeru Ban, l’attore kabuki Shikan Nakamura VIII, Jeremy Irons, la chef Darina Allen, la couturière Iris van Herpen, il car designer Horacio Pagani, il manager e collezionista Domenico De Sole con la moglie Eleanore, la ceramista Jennifer Lee, finanche il giardiniere di un albero sacro, Hiroyuki Tsujii.
L’eterogeneità di questi profili sfugge necessariamente ad un perimetro definito, ad una definizione univoca. Eppure, riuniti negli hangar dove Joseph Walsh progetta e realizza i suoi mobili e le sue sculture in legno lamellare curvato, un’espressione – ancora una volta – della fluidità curvilinea che è quando di più vicino possa esistere all’immaginario di una poetica fiaba irlandese, questi makers hanno potuto esperire la sensazione di essere e vivere all’unisono, raccontando la nascita di una vocazione, gli inevitabili fallimenti, e soprattutto la determinazione con cui, superando gli ostacoli, continuano ad affinare e a mettere all’unisono una visione e allo stesso tempo un savoir faire spiccatamente tecnico. Poco importa se costruito su una fisicità, una manualità o una tecnologia.
Il making significa imparare dal passato per poi aggiungere un tassello personale da condividere con gli altri, seguendo una circolarità che non si arresta.
Joseph Walsh
“Il design può intimidire, perché è diffusa una percezione de design come buon design o cattivo design” ci spiega Walsh, parlando del suo lavoro, identificato negli anni tanto come design a tutti gli effetti che come alto artigianato. “Il Making, al contrario, non c’entra con il buon making o il cattivo making, perché è un fare attivo. Making In permette di parlare dell'importanza di continuare a celebrare il making attivo. Quindi, per me, Making in non c’entra con il design: lo considero troppo pretenzioso, e troppo piccolo.”. Ma quale minimo comune denominatore è possibile trovare con l’altro grande fenomeno maker, quello che negli ultimi anni ha portato alla ribalta il mondo dei fablab, animando una narrazione fatta di empowerment tecnologico dal basso, di un thinkering alla portata di tutti? Per rispondere, Walsh osserva che molti fablab sono già stati chiusi, sottolineando il carattere effimero di una proposta mandata allo sbaraglio per seguire una tendenza. Proprio mentre un altro trend aveva prima screditato il fenomeno del crafts come qualcosa di marginale, per poi riabilitarlo in tutta la sua rilevanza.
Poco importano le etichette, ci sentiamo di dire dopo aver ascoltato tutti i partecipanti. Da un’occasione come Making In si mostra, per i makers e per chi ne scopre il mondo, l’opportunità di allargare le prospettive, e meravigliarsi di fronte a visioni e capacità straordinarie coltivate con perseveranza e testardaggine.
Perché, rifiutando la necessità di dover incasellare arti, saperi e tecniche in una tassonomia, basterebbe in fondo riconoscere ai makers l’unico elemento che li unisce realmente: quello di coltivare una singolarità a partire da un sapere condiviso, alimentando l’unica voce e l’unico timbro che li distingue veramente.