Uno dei mantra progettuali di Achille Castiglioni era che “gli ambienti devono essere sempre osservati attraverso il rito dei comportamenti che in quegli spazi si verificano”. Quali spazi meglio dei ristoranti offrono la possibilità di osservare come il “rito del cibo” si mette in scena e quindi si progetta?
Il ristorante è una invenzione relativamente moderna e, si sa, non ci si va solo perché si ha fame (infatti sono rare le situazioni in cui ci si trova come singolo in un locale collettivo) ma per condividere con qualcuno un momento speciale per il tramite di quell’attività quotidiana, alimentare e nutriente, indispensabile al nostro sostentamento e mantenimento. Ristorante, appunto, “participio presente di ristorare, da restaurare, ricostruire, rimettere a nuovo”, come ricorda Marco Marzini, progettista dell’allestimento e curatore, insieme a Chiara Alessi, della mostra “Progetti per servire. I Castiglioni e la ristorazione” che apre presso la Fondazione Achille Castiglioni come evento Fuorisalone della Design Week 2024, e che sarà aperta, e accogliente quasi come un ristorante, per tutto l’anno.
Per tutta la sua carriera Achille fu attratto dai nuovi luoghi per il consumo e la somministrazione alimentare, dove si conosceva un modo nuovo e informale di stare in compagnia occupati a conversare amabilmente, a mezza bocca semi piena, davanti a un piatto e a un boccale.
Sette progetti di allestimenti per luoghi di servizio e consumo del cibo, realizzati tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Novanta, e che non ci sono più, perché spesso questi luoghi durano poco, a volte il tempo breve di una fiera o di una stagione, oppure di una generazione. L’insieme più esteso di progetti sviluppati riguarda degli episodi continuativi per la stessa committenza - la Splügen Bräu, marchio della birreria Poretti di Varese - che hanno avuto inizio con un chiosco (1959) e si sono conclusi con un ristoro (1992), entrambi per la Fiera di Milano. Per tutta la sua carriera Achille, inizialmente con il fratello Pier Giacomo, fu attratto dai nuovi luoghi per il consumo e la somministrazione alimentare, come per esempio i self-service (all’americana come si diceva negli anni Sessanta) e le tavole calde o le birrerie appunto, dove si conosceva un modo nuovo e informale di stare in compagnia occupati a conversare amabilmente, a mezza bocca semi piena, davanti a un piatto e a un boccale.
Il capolavoro di questa serie, a cui l’allestimento della mostra fa un omaggio diretto, riguarda il progetto per la Birreria in corso Europa a Milano (1960), al piano terra di un nuovo edificio progettato dall’amico Gigi Caccia Dominioni. Lo spazio principale in cui ci si trovava subito immersi all’ingresso era un ambiente molto alto che, mantenuto aperto, ha permesso di sviluppare un'idea inedita e audace: su una “scalinata” a gradoni sono stati fissati degli “stalli” con tavoli e panche che nell’insieme costituivano un paesaggio interno su quattro quote diverse, con dei picchi (dati dagli alti schienali) e degli avvallamenti (dati dai percorsi di servizio). Mentre la parte bassa del locale era un brulicare di elementi che si animavano con la presenza delle persone, l’ampio soffitto ospitava un “complicato spettacolo” di tutti gli impianti necessari, che venivano programmaticamente lasciati a vista, anche per aumentare l’effetto “industriale” di luogo di transito pubblico. La luce artificiale aveva due tipologie principali: una bassa e puntuale al servizio dei singoli tavoli mentre un’altra, alta e d’ambiente, ottenuta grazie a dei lampioni stradali esterni installati in un interno.
Tra le tante cose progettate e realizzate per l’occasione, e poi messe in produzione seriale - nella migliore tradizione del design italiano che era sempre inizialmente molto sperimentale e prototipica - ricordiamo la lampada Splugen prodotta ininterrottamente da Flos, alcuni elementi della serie dei "Servi" prodotti prima da Flos e poi da Zanotta, lo sgabello "Spluga" prodotto da Zanotta, i bicchieri con l'apribottiglia prodotti da Alessi, e infine lo spillatore per birra Spinamatic prodotto da Poretti, vincitore del Compasso d’Oro nel 1964.
Oltre a questo spazio unico nel suo genere, Castiglioni progettò sempre a Milano negli anni Settanta anche due ristoranti più tradizionali ma non per questo convenzionali, quindi sempre ricchi di idee e di innovazioni progettuali che questa mostra spiega con molti nuovi materiali d'archivio. Alcune idee (ovvero le “componenti principali di progettazione” come piaceva chiamarle ad Achille), per esempio il lavoro in sezione verticale e la tipologia dei tavoli “a compartimenti”, si ritrovano sviluppate in queste occasioni di design degli interni.
Al Malatesta (1970) si accedeva da un ingresso ad angolo, molto basso e compatto, rivestito completamente di ceramiche bianche e lucide in cui si evidenziava solo il lettering del locale, disegnato da Michele Provinciali. Da qui si entrava direttamente nelle sale principali che avevano invece un’altezza considerevole. In questi ambienti era presente una bordatura orizzontale inferiore, colorata e fonoassorbente, mentre sul resto della parete un'importante decorazione floreale stilizzata creava una selva di linee e campiture. Grazie all’altezza ridotta dell’ingresso e del lungo corridoio di servizio veloce e di collegamento con la cucina, fu creato un mezzanino superiore in cui erano collocate delle salette più riservate che avevano affaccio diretto sulla sala principale tramite delle aperture.
Il ristorante “da Lino” - Buriassi (1973) si sviluppava al piano terra lungo un cortile interno ed era distribuito anche su un piano inferiore. Le sale avevano una distribuzione lineare, con passatoia centrale libera per il passaggio di servizio, con carrelli da portata disegnati per l'occasione, insieme ai tavoli che avevano gambe non convenzionali, disassate per migliorare il comfort di seduta. Gli interni erano caratterizzati da cornici metalliche rosse che contenevano campiture di feltro grigio e che, in occasione dei tavoli, si alternavano a campiture specchianti che moltiplicavano le viste e intrecciavano gli sguardi dei commensali. Questi specchi, poi messi in produzione da Kartell, contenevano ognuno un piccolo rosone luminoso che creava tutta la luce d’ambiente. Il soffitto della sala al piano terra era un grande piano inclinato, costituito da un telo tesato, che nascondeva l'impianto di areazione.
La mostra mette in scena negli spazi della Fondazione Achille Castiglioni tutte queste storie.
Lungo le pareti prendono forma graticci in legno (con ruote per poter essere sempre spostati e rendere accessibile l’archivio operativo) che diventano strutture leggere e portanti per il ricco materiale documentale esposto. Oltre ad una ampia selezione di preziosissimi materiali d’archivio inediti riguardanti tutti i progetti, nella stanza principale viene ricostruita una sezione in scala reale della birreria Splügen Bräu. Un grande mockup bianco, che permette di intuire, se non capire, la complessità dell'idea spaziale e tridimensionale di quell’interno storico e memorabile, scopribile anche grazie a un tour virtuale dell'intero locale ricostruito digitalmente.
Nelle altre due stanze della Fondazione, le soluzioni di allestimento ad hoc sviluppate per questa mostra portano il visitatore a relazionarsi con gli ambienti originari, spesso angusti e affollati, difficilmente percepibili solo osservando disegni tecnici o foto storiche. Se esporre architettura è una delle sfide più difficili (quasi impossibili) per la museografia, perché l’architettura si comprende solo abitandola dove la si trova, nel caso in cui le opere non esistono più, la ricostruzione è l’unico modo che ci avvicina all’esperienza.