La riflessione del design sulle proprie pratiche e funzioni diventa protagonista negli anni ’60, stimolata dall’attivismo politico e dalle proteste studentesche del periodo. È infatti nelle università, in particolare quelle di Firenze e Torino, che si sviluppano le basi del Radical Design, un movimento eterogeneo, caratterizzato dalla disillusione nei confronti degli ideali del modernismo e dalla volontà di operare una riforma radicale della disciplina, che ne privilegiasse la dimensione critica.
Si sviluppano progetti che non rispondono alle regole dell’industria ma che mirano a esprimere un’idea, interpretando gli oggetti come veicolo di un messaggio critico. Con estetiche sempre provocatorie e spesso volutamente kitsch, i progetti sono volti a stimolare la riflessione e a creare dibattito su temi sociali ritenuti fondamentali.
Consacrato dalla mostra “Italy, the new Domestic Landscapes” al MoMA di New York nel 1972, l’anno successivo il Radical design crea i Global Tools, laboratori finalizzati alla formulazione di una base teorica comune. Questo passaggio, scrive Ugo La Pietra in un articolo pubblicato su Domus nel 1978, “segnò l’apoteosi e morte del design radical italiano”, che infatti come movimento si scioglierà in quegli anni.
La riflessione del Radical design torna in altre forme negli anni ’90, quando si riafferma una progettazione critica che mette in discussione anche sé stessa. E, di nuovo, sono scuole e università i laboratori di sperimentazione e creazione.
I progetti del collettivo Droog sono una critica alla cultura del consumo, con un approccio che si interroga sul contesto degli oggetti prodotti, rigenerando e rinnovando il senso delle cose e agendo, come commentò Mendini, “con grande libertà rispetto all’industria e ai meccanismi economici”. La maggior parte dei membri viene dalla Design Academy di Eindhoven.
A cavallo tra i due millenni, Dunne & Raby, docenti del Royal College of Arts di Londra (RCA), teorizzano in questa prospettiva il Critical Design e, qualche anno dopo, lo Speculative Design. Attraverso pubblicazioni teoriche e alcuni dei progetti più iconici di questo approccio, i due autori sottolineano la necessità per il design di operare al di fuori dei vincoli delle pratiche industriali, per evitare di perdere credibilità e ridursi ad agente della società capitalista.
Il Critical Design, dicono gli stessi Dunne e Raby, è un “un modo di usare il design come medium per sfidare congetture, preconcetti e idee scontate sul ruolo dei prodotti nella vita quotidiana”. Non crea infatti oggetti utili, ma progetti utopici e distopici, con l'intento di far riflettere l’utente e stimolare dibattiti sulle implicazioni sociali, culturali ed etiche di prodotti e tecnologie.
Oggi emergenze come il cambiamento climatico o le conseguenze di certe tecnologie continuano a interrogare il design sulla sua pratica e sulla sua funzione.