“Excursion dans l’innovation”, avvertiva un poster degli anni ‘80 e di innovazione, nella Citroën Karin, ce n’era fin troppa. Presentata al Salone di Parigi non poteva non attirare gli sguardi stupiti degli astanti. Non era normale vedere una piramide ergersi in un salone motoristico, figurarsi se poi era su quattro ruote. Le forme sono così bizzarre (o innovative, al lettore giudicare) che ancora oggi non ci siamo abituati. La parente più prossima alla Karin è il Cybertruck di Tesla, la vettura presentata qualche mese fa che è così brutalista da aver dato vita a commenti stupefatti (tanti) e indignati (tantissimi).
Ma torniamo alla Karin perché dentro quella piramide di vetro e metallo stupiva ancor di più. A colpo d’occhio subito un richiamo “italiano”: questa francese è simile alla Lancia Sibilo di Marcello Gandini, presentata due anni prima ma ricorda anche un aereo. Montate le ali potremmo avere un F-117 Nighthawk del 1981, uno dei velivoli militari che più ha influito sulla cultura di massa con il suo design squadrato. La superficie vetrata spicca su tutto, partendo dalla carrozzeria per puntare al cielo e chiudersi su un tettuccio grande come un foglio A3. Non si muove però in verticale ma verso il retro così da accomodare più comodamente i due ospiti. La visuale inganna. Vista di tre quarti, la Karin appare molto alta e slanciata. Se la si guarda di fronte invece si intuisce che è schiacciata. La vettura è alta 1,075 metri, meno di una supercar attuale.
Ma entriamo nella Karin per ammirarne gli interni. Non è comodissimo passare per queste portiere ad ali di farfalla, che si aprono verso l’alto, ma dopotutto le piramidi non erano certo degli hotel. Una volta dentro ecco che il guidatore si trovava all’interno di un’astronave color crema. Chi aveva visto al cinema Alien di Ridley Scott o lo Star Trek di Robert Wise si trova a casa (erano usciti entrambi nel 1979). L’interno della Karin è glaciale, retrofuturistico. Ha una miscela di compassata eleganza e di freddezza elettronica che esalta e stupisce. La posizione di guida è centrale, con i due passeggeri in linea ma leggermente arretrati. Sembra una bizzarria ma in realtà è una configurazione che ritroveremo dodici anni dopo su una supercar, la McLaren F1 of 1992.
Il volante ricorda una cloche, sembra quasi che si stia per trasformare in un joystick. Al centro ha tanti piccoli bottoni e altri ancora lo circondano con il loro colore dorato. L’idea è che potessero attivati con la punta delle dita senza mai lasciare il volante. La vera chicca però è sulla plancia dove spunta uno schermo. Ricorda quello delle auto attuali ma quella bombatura fa capire subito che si tratta di un mini tubo catodico. La sua funzione però è attuale: mostrava (o meglio avrebbe dovuto mostrare, è pur sempre un concept), lo stato della strada e le informazioni sulla vettura.
Chi è che può progettare un’auto così? Un uomo così creativo (e intelligente) da aver cambiato il proprio cognome. È l’italo-francese Trevor Forst, direttore del Centro Stile Citroën, il quale aveva capito che il design parlava la nostra lingua e aveva modificato il proprio cognome in Fiore, prendendolo dalla madre. In quel periodo il nostro Paese sfornava talenti a getto continuo e farvi parte significava potersi permettere delle bizzarrie stilistiche. Agli italiani era permesso (quasi) tutto, anche considerare qualcosa di inusitato un intellettualissimo esercizio di stile.
Il tricolore torna altre due volte in questa opera del marchio del double chevron. La prima è nel nome, che parte dall’inglese “car” e si evolve diventando “cara”, quindi “carina” e quindi Karin per farlo ritornare internazionale (La Citroën era pur sempre francese). C’è poi il costruttore. L’unico esemplare completo mai realizzato era stato creato dalla Carrozzeria Coggiola di Torino, esperta in concept e pezzi unici come la squadratissima Janus del ‘78 e la rotondissima Cinquecento Fionda del 1992.
La stampa dell’epoca aveva definito lo schermo sulla plancia come “La Tv sul cruscotto” e molti avevano notato che oggetti del genere, portati nelle auto di serie, avrebbero “disorientato” l’automobilista. Ora possiamo tranquillamente smentire questa affermazione ma ci sono voluti quarant’anni.