Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1050, ottobre 2020.
Ho visitato il mio primo Salone nel 1979. Avevo visto su alcune riviste di settore progetti interessanti di designer italiani dai nomi esotici: Vico Magistretti, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Ettore Sottsass, Mario Bellini, Angelo Mangiarotti e altri. Gli articoli erano tutti centrati sul Salone. Compresi all’istante che quella era la piazza della professione di cui ambivo entrare a far parte. In quegli anni, viaggiavo per lo più in treno o con la Dan Air, l’easyJet dell’epoca, anche se molto meno easy. Anche cambiare il denaro era complicato: o usavi i contanti, rischiando di perderli, o i traveller’s cheque, per niente convenienti.
Arrivato a Milano, avrei speso il primo giorno in cerca di un albergo, ispezionando camere, finché non capitai all’Hotel Nuovo, “Aperto tutta la notte”. È ancora lì, in piazza Beccaria, di fronte al comando dei vigili, ben posizionato tra il Duomo e piazza San Babila. Era a buon mercato e mi diedero una bella stanza al “piano nobile”, le finestre affacciate su un terrazzino dove cenavo, per lo più a pizza e birra, prima di uscire per inaugurazioni. Anche se conoscevo poche persone, incontrarsi non era facile: dovevi fissare appuntamenti precisi e, se eri in ritardo, non c’era modo di avvisare. La sera, quando rientravo tardi, trovavo il portiere dell’albergo che beveva grappa in compagnia di un vigile, mentre arrivavano i clienti a ore del bordello dell’ala nuova dell’hotel.
La vita italiana era nuova e piena di colore per un diciannovenne studente di design. Se non potevo immaginare che avrei ripetuto lo stesso viaggio per i 41 anni successivi, sentivo però di amare Milano e il suo stile di vita. Il mio budget era limitato e presto scoprii che un accredito stampa avrebbe potuto non solo farmi entrare gratis al Salone,ma anche procurarmi il pranzo e l’uso dei telefoni riservati alla stampa. Mi accordai con una rivista d’architettura inglese per scrivere una breve cronaca sulle novità, il che rendeva il mio accredito più o meno legittimo. L’arredo “di design” era confinato in un solo piccolo padiglione raggiungibile dall’ingresso con una scorciatoia attraverso un padiglione zeppo di meraviglie dorate per il mercato arabo, con comodini a forma di piccoli schiavi neri che reggevano vassoi sulla testa e altre atrocità. Con pochissime aziende internazionali e ancora meno designer stranieri, il Salone era però già l’avanguardia del mercato, come oggi.
A fine anni Settanta, lo stato d’animo collettivo mi pareva a un impasse, portato dalla ricerca espressiva di un pensiero logico al termine del suo percorso. Per quanto a scuola i professori insistessero ancora su un’estetica funzionale, ero più interessato agli oggetti capaci di esprimere una qualità atmosferica e poetica. Ricordo poco di quel Salone, non erano anni fertili; l’unico a divertirsi sembrava Studio Alchimia, collettivo dirompente; il primo, pensavo, ad agitare le acque tranquille del mondo del mobile, seguito, in modo più calcolato, da Memphis. Guida creativa di Alchimia era Alessandro Mendini (all’epoca direttore di Domus), come Sottsass lo era di Memphis. L’estetica di Alchimia mi pareva una versione moderna del Vorticismo, che faceva dell’arredamento lo scenario di uno stile di vita più dinamico. I suoi eventi erano abbastanza discreti se paragonati all’inaugurazione di Memphis, il primo grande evento del Salone in città, dove la folla si accalcava per entrare.
Ricordo le emozioni contraddittorie nello scoprire che le regole del design erano messe in discussione, e che dissentivo con l’approccio adottato per rimpiazzarle. Era chiaro che si stava affermando nel design una nuova forza, da cui non ero attratto. Tra gli oggetti in mostra, il divano Century di Andrea Branzi (poi esposto nel secondo anno di Memphis) era un’interessante mix di pensiero razionale e poesia. Sembrava una panchina imbottita con un bracciolo su ruote per muoverlo lungo la seduta, rappresentava qualcosa a cui ambivo: un’espressione più poetica rispetto alla sola funzione. Probabilmente mi ha incoraggiato a proseguire con la mia Thinking Man’s Chair. Gli altri pezzi di Memphis erano troppo espressivi, come una musica dal volume troppo alto. L’effetto fu che tornai a scuola più convinto di fare a modo mio e poco disposto a seguire le vecchie regole. In città c’erano altre mostre e inaugurazioni. Ricordo le sontuose feste di Tecno in via Monte Napoleone e negli showroom di Danese e Zeus, le serate al Plastic con i DJ set di Nicola Guiducci, Raman Schlemmer e Tito Pastore (art director di Fiorucci).
Scorreva sotterranea, allora come oggi, una spinta al cambiamento. Nel 1983 lasciai il Royal College of Art e mi trasferii a Milano. Mi recai negli studi di Sottsass, George Sowden e Andrea Branzi con un magro portfolio, in cerca di lavoro. Branzi mi disse che, se mi fossi trasferito a Milano, mi avrebbe affidato degli incarichi, ma era un’offerta vaga e io non avevo abbastanza denaro.
L’anno dopo, James Irvine, un buon amico che era un anno avanti a me al RCA, ottenne un incarico a Milano tramite Paolo Viti, art director della Olivetti. James mi avvicinò a Milano: avevo un luogo dove stare e, grazie a lui, conobbi molte persone. All’epoca, Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, George Sowden e Mario Bellini lavoravano per Olivetti,e il giro di designer loro collaboratori includeva James Irvine, Simon Morgan, Geert Koster, Nick Bewick, Ferruccio Laviani, oltre una cerchia più ampia di amici di cui facevano parte Nathalie Du Pasquier e Mathilde Bretillot. Prima che James scoprisse il Bar Basso, andavamo a bere qualcosa in via Pontaccio, nel bar preferito di George, o al Jamaica, aperto fino a tardi. In occasione di uno di questi primi Saloni, arrivai a Milano con il nome di un architetto e giornalista, Bepi Maggiore, scritto su un pezzo di carta dalla mia ragazza italiana, che ne aveva sentito parlare da un amico.
Una sera, a una festa al luna park delle Varesine, mi ritrovai a chiacchierare con un gruppo di persone, tirai fuori il mio pezzo di carta e chiesi se qualcuno lo conoscesse: lui era proprio lì. Quando, qualche giorno dopo, andai a mostrargli i miei progetti, mi invitò in Ungheria al convegno “Rastlos”, organizzato dagli architetti viennesi dello studio Eichinger oder Knechtl. Marco Zanuso Jr mi offrì un passaggio in auto fino a Vienna; c’era anche Massimo Iosa Ghini. Fu in quel viaggio che conobbi una rete di designer di tutta Europa, tra cui Andreas Brandolini, che nel 1984 mi portò a trasferirmi a Berlino. Milano, soprattutto durante il Salone, ha sempre avuto la capacità di fare incontrare le persone: a me ha aperto la prima porta del mondo del design.