La recente pandemia ha messo in evidenza la crisi del vivere contemporaneo, dominato dall’uso distorto delle tecnologie digitali che, senza una profonda conoscenza dei mezzi, soprattutto in ambito social, Facebook in particolare, determinano sempre più diseguaglianze nelle comunità.
La relazione tra esseri umani e tecnologia richiama alla memoria quello che è avvenuto negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, dove le neo-avanguardie radicali, dal gruppo 9999 ad Ant Farm, avevano riposto proprio nella tecnologia la possibilità di immaginare nuovi mondi possibili. La tecnologia velocemente si trasforma in arma di distruzione con la guerra in Vietman che aveva dato avvio al movimento del 1968 e alla controcultura in America, Europa e Italia.
Oggi che siamo orfani di quei movimenti e ai quali cerchiamo ancora di avvicinarci, con esiti sterili e ipocriti, si aprono nuovi e inaspettati scenari determinati dalla crisi tra democrazia, partecipazione, cittadinanza e precariato ricollocando al centro termini come “rivoluzione”, parola ancora capace di fare sintesi di un modo di agire. Ci accompagna in questa vecchia/nuova dimensione l’appassionante libro di Marco Petroni, Il progetto del reale. Il design che non torna alla normalità.
Petroni si interroga su alcune questioni primarie fondamentali, fuori dalle logiche dominanti e del sistema dei media: “Che cosa ricorderemo di queste nostre vite precarie? Quali azioni? Come affrontare le tensioni esistenti tra le solitudini tecnologiche, rancorose e egoiste, dell’individuo contemporaneo, e la materia viva del pianeta, ferito a morte dall’economia capitalista?”
Indubbiamente la pandemia ha avuto il merito di mettere in evidenza in maniera diretta lo stato di degrado della società contemporanea sempre più assuefatta all’uso consumistico della tecnologia che, fin dall’inizio ci è stata venduta come unica possibilità per i territori e le persone per eliminare le distanze fisiche, culturali e sociali. Questo assioma è vero in parte. Se restiamo solo all’Italia l’assenza di una buona rete internet e di connessioni telefoniche stabili determina l’evoluzione o l’involuzione di una comunità, non solo in termini umani ma economici e sociali. Il controllo esercitato dal capitalismo tecnologico orienta e manipola i nostri comportamenti, gusti, passioni, abitudini senza nessun filtro che possa consentire ai cittadini di decidere autonomamente.
Come ha evidenziato recentemente il sociologo Massimo Ilardi in uno scritto pubblicato su archphoto.it, “La immutabilità della natura umana, fondata sui rapporti di potere, sulla volontà di dominio e sulla irriducibilità del conflitto, ha sempre facilmente vinto sulla utopia di un altro mondo possibile e sulla aspettativa di un cambio di civiltà che ci avrebbe reso migliori. E, d’altra parte, il realismo politico, che da Macchiavelli va ad Hobbes fino a Schmitt non ha forse rivelato un mondo che non esiste? Ha raccontato di una natura umana che era sporca, brutta e cattiva solo nelle teste dei suoi teorici? Oppure è reale e vigente una immutabilità della stessa natura umana che fonda uno dei presupposti essenziali dell’agire politico e della sua autonomia?”
È con questa immutabilità della natura umana che dobbiamo confrontarci attraverso una nuova progettualità fuori le righe che guardi ai contesti e alle comunità enfatizzando una azione critica militante e radicale, nel senso etimologico del termine “andare alla radice” delle cose.
“Mentre le élite continuano a professare il loro inscalfibile tecnottimismo” prosegue Petroni, “le disuguaglianze che le tecnologie iniettano nella società continuano a essere sempre più diffuse e innegoziabili. Il tema della democrazia digitale viene indagato mettendo al centro le dinamiche dello spazio pubblico sia esso digitale, virtuale o fisico.”
Dunque come possiamo uscire da questa claustrofobia digitale in cui il cittadino è prigioniero? Petroni analizza una serie di casi studio che provano a dare una risposta con l’adozione di parole chiave come comunità e spazio pubblico intrecciate al macro tema del cambiamento climatico.
Tra i casi studio indagati due appaiono più convincenti. Il progetto del collettivo WORKac, realizzato insieme a Chip Lord degli Ant Farm, 3. C. City: Climate, Convention, and Cruise, una città galleggiante dove convivono più specie e che “non appartiene a nessuno stato” affermano i progettisti “ed è destinato a facilitare il dialogo e il dibattito tra 28 persone e altre specie come i delfini e altre creature marine. È come una nave, un laboratorio di ricerca, un centro conferenze e un veicolo di sogni.”
Altrettanto interessante e utile a stimolare un dibattito sulle risorse naturali è il progetto Fordlandia di Studio Swine. Fordlandia nasce dalla idea della città fabbrica che il costruttore automobilistico Henry Ford ha costruito nel 1920 in Brasile. Lì ha realizzato case per i lavoratori, strade, il cui fine era l’estrazione della gomma naturale direttamente nel sito. Questo però non avviene a causa delle rivolte che consideravano questa città troppo oppressiva e viene abbandonata. Il focus di Studio Swine è progettare il ciclo produttivo di un nuovo materiale plastico, l’ebanite, per sostituire il legno di ebano e preservare così il patrimonio boschivo brasiliano. In questo modo il design assume una posizione etica, rovesciando il paradigma che esso sia unicamente un prodotto esteticamente bello da esibire nel salotto.
Il cambiamento climatico non è più il futuro ma è già il presente, dobbiamo confrontarci senza retorica e scorciatoie ma agendo sul piano del progetto politico e culturale, consapevoli che lo spazio di azione è grande ma occorre necessariamente riempirlo di contenuti. L'invito di Petroni è di non aspettare, ma agire.