Questo articolo è stato pubblicato in origine sull’allegato di Domus 1039, ottobre 2019
Lo spazio all’interno del quale nasce, si sviluppa e si realizza un’opera d’arte, un progetto d’architettura o di design è un elemento considerato talmente intrinseco al processo creativo di un’artista e/o progettista che spesso viene dato per scontato; motivo per cui il suo riconoscimento e un’eventuale sua tutela avviene solo quando è ormai a rischio di scomparire, se non è già stato cancellato o stravolto completamente. Eppure l’atelier, lo studio, la cosiddetta “casa del mago” immortalata da Depero, è senza dubbio il luogo più vissuto dall’artista e dal progettista, lo spazio che più si plasma a sua immagine e somiglianza. Ancor più della propria abitazione, influenzata dalle differenti necessità domestiche – salvo naturalmente i rari casi degli atelier scelti come luogo dove frugalmente abitare oppure delle case che sono tutt’uno con lo spazio della ricerca artistica o che in parte lo integrano.
Il luogo del faber è per definizione indipendente e autoreferenziale, talvolta austero e asciutto, in grado di dare respiro e concentrazione, altre volte saturo di oggetti, necessari a un processo di sovrapposizione, riflessione e rielaborazione. Che si tratti dell’atelier dell’artista, spazio quasi sempre solitario, o dello studio dell’architetto o del designer, che in genere è collettivo, siamo di fronte a luoghi sempre carichi di memoria (dove la zona dell’archivio è testimonianza pulsante del cuore creativo), ambienti che trattengono un’atmosfera e sono lo specchio in cui possiamo ancora vedere riflessi chi li ha praticati e vissuti, quando non sono più attivi ma vengono “tenuti in vita”.
Come la casa-museo, quello dell’atelier/studio è un tema che conferma l’importanza di questi spazi in termini di beni culturali di un determinato territorio, ma non solo. Sebbene, infatti, si tratti di luoghi i cui creatori non sono più in vita, essi conservano ancora un ricco potenziale, la cui vocazione può mutare, per non fossilizzarsi in polverose wunderkammer. Il progetto “L’atelier natura viva” si è fatto interprete di questo potenziale. Il luogo del faber – inteso come ‘modellatore’, personalità creativa –, è stato riportato in vita attraverso immagini d’archivio: scatti fotografici esposti all’interno di quelle stesse stanze di cui sono testimonianza. Fermi immagine che ricostruiscono delle storie, dei passaggi, mostrano l’aura originale di questi interni quali organismi vivi e vissuti.
Indipendente e autoreferenziale, a volte austero e asciutto e altre saturo di oggetti: l’atelier del creativo è un manifesto progettuale di chi ci lavora.
Il progetto è partito dalla città di Milano, un paesaggio culturale che durante tutto il XX secolo ha visto concentrarsi l’attività di artisti e personalità creative di livello internazionale che vi hanno stabilito dimora e spazio di lavoro. Ha trovato forma in un programma di tre piccole mostre realizzate in occasione di “Milano MuseoCity 2019” presso la Fondazione Franco Albini, la Fondazione Achille Castiglioni e lo Studio Mario Negri, curate dal gruppo di ricerca D.E.SY. (Designing Enhancement Strategies and Exhibit SYstems for the Italian House Museums and Studios), coordinato da Anna Mazzanti del dipartimento di Design del Politecnico di Milano.
Gli scatti e i materiali d’archivio raccolti nella Fondazione Franco Albini hanno ripercorso i tre movimenti temporali e fisici dello studio: prima in via Panizza 4 (aperto da Albini e Giancarlo Palanti nel 1931, poi dal 1953 condotto da Albini con Franca Helg sino al 1960), in seguito trasferito in via XX Settembre 21 (1960-1970), giunto quindi in via Telesio 13 (dal 1971 sino alla morte di Franco Albini nel 1977, poi condotto da Franca Helg, Antonio Piva e Marco Albini), attuale sede della Fondazione e dello Studio Albini Associati Architetti (condotto oggi da Marco e Francesco Albini).
Tra le immagini selezionate ci sono l’iconico ritratto di Franco Albini immortalato dal grande fotografo americano Irving Penn nel 1948, unico scatto esistente all’interno dello studio di via Panizza. Franco Albini e Franca Helg sono invece ritratti al lavoro, fianco a fianco, nello studio di via XX Settembre negli anni Sessanta. Gli scatti degli anni Settanta, ambientati nell’attuale studio di via Telesio, testimoniano il passaggio allo “Studio di architettura Franco Albini, Franca Helg, Antonio Piva, Marco Albini”.
Le immagini d’archivio che sono state esposte in Fondazione Achille Castiglioni ritraggono molti momenti della storia dei tre fratelli Livio, Pier Giacomo e Achille Castiglioni. Una decina ritraggono i fratelli Castiglioni all’interno del loro primo studio in Corso di Porta Nuova 57 (1944-1960), nello stesso cortile in cui avevano sede uno dei laboratori del padre, lo scultore Giannino Castiglioni, e l’azienda di allestimenti Chiesa & C. (in seguito divenuta Portanuova Allestimenti). In uno scatto c'è anche Caccia Dominioni, che condivise lo studio con Livio e Pier Giacomo tra il 1943 e il 1944.
Lo studio Castiglioni si trasferisce poi definitivamente in Piazza Castello 27 fra il 1960 e il 1961 (dove Achille ha lavorato sino alla sua dipartita nel 2002, mentre il fratello Pier Giacomo era venuto a mancare già nel 1968) e oggi è la sede della Fondazione Achille Castiglioni. Quattro scatti di Luciano Ferri della metà degli anni Sessanta seguono Pier Giacomo e Achille lungo la sequenza delle grandi – e fumose – stanze che prendono nomi quali “stanza dei prototipi”, “stanza dei tecnigrafi” o “stanza dello specchio”. In ognuna sono ben riconoscibili molti dei loro progetti storici, così come la mitica collezione di objet trouvé, fonte inesauribile di ispirazione dei due fratelli. Un’altra serie di fotografie testimonia la visita di Marcel Breuer nel 1962, immagini inedite e ironiche che immortalano un incontro epocale.
All’interno dello Studio Mario Negri, le istantanee di Paolo Monti e Arno Hammacher ritraggono l’artista e il suo studio: prima in via Pisacane, poi in via Stoppani 6 e, infine, in via Stoppani 7. “L’artista che plasma le sue opere – scrivono Rita Capurro e Alessandra Spagnoli nella presentazione –, oggetti che connotano angoli privati, sculture terminate e in fase di realizzazione raccontano periodi operosi di lavoro e creazione, a partire dagli anni Cinquanta fino al 1987. Lo studio, a uso esclusivo dello scultore, sembra trattenerne ancora la presenza nella struggente immagine della sua poltrona vuota nello scatto di Hammacher a pochi giorni dalla sua scomparsa”.
Queste tre piccole mostre sono state allestite all’interno di tre luoghi storici e vivi, con il comune intento di portare un messaggio per le generazioni future, un lascito culturale che si trasmette già dalle pareti stesse di questi ambienti, dagli oggetti, dagli spazi che raccontano.