Qualcuno l’ha definito un “maestro silenzioso del design italiano”. È una definizione pertinente e suggestiva: Gianfranco Frattini non amava ostentare, teorizzare, esibire. Sobrio, discreto e concreto come nella miglior tradizione di quella borghesia ambrosiana di cui era figlio, Frattini consegnava ai suoi progetti e ai suoi oggetti il compito di parlare per lui e di dar voce alle sue visioni. Allievo di Gio Ponti, cresciuto nel solco del razionalismo, scevro da ogni provincialismo e attento alla lezione del movimento moderno, in mezzo secolo di lavoro Frattini ha applicato in modo originale e spesso sorprendente il principio di Ernesto Nathan Rogers: dal cucchiaio alla città. Il che significa che è stato capace di transitare senza soluzione di continuità dall’architettura alla progettazione di arredi, esplorando tutte le tipologie, dai mobili alle lampade, dai vasi ai gioielli, sempre cercando soluzioni capaci di interpretare e soddisfare le esigenze di innovazione e di modernità che attraversavano la società italiana nella seconda metà del Novecento.
Ricordare Gianfranco Frattini a vent’anni dalla scomparsa
Allievo di Gio Ponti, ha transitato dall’architettura agli arredi al prodotto, perseguendo un’idea di design elegante ed essenziale, con la lampada Boalum, il tavolino Kyoto o il caschetto giallo per la Montecatini.
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- Silvana Annicchiarico
- 30 gennaio 2024
Attento ai dettagli e ai particolari, profondo conoscitore dei materiali, dotato di una sensibilità non comune nel relazionarsi con le maestranze e con gli artigiani perché capace di parlare la loro stessa lingua (“la mia vita di progettista-designer è nella fabbrica”, era solito dire), Frattini ha perseguito un’idea di design al tempo stesso elegante ed essenziale, libera da ogni eccesso come da ogni ridondanza, e armoniosamente capace di integrare organicamente ogni dettaglio nell’insieme.
La memoria del passato, filtrata dalla sua sensibilità, non è mai sfociata in lui nel vernacolare o nel gusto del revival, ma in un nuovo linguaggio fortemente contemporaneo, personale, atemporale e non soggetto alle mode. Convinto che il design sia “innanzitutto uno sforzo per migliorare la realtà”, e che per migliorare la realtà “bisogna cercare di conoscerla e di comprenderla”, nel progettare qualsiasi cosa Frattini si chiede preliminarmente a chi serve, a cosa serve, come viene usato e quali sono i materiali che meglio rispondono alla sua funzione. Ma ciò non dà luogo a un rigido dogmatismo funzionalista: al contrario, Frattini è affascinato anche da exploits progettuali più liberi e ricchi d’estro e di intelligenza.
Si veda anche solo come affronta e risolve il problema della luce in uno dei suoi oggetti più iconici, la lampada Boalum (1970): infrangendo ogni regola, Frattini immagina un lungo tubo flessibile e luminoso posizionabile ovunque, appeso, avvolto a gomitolo o annodato come un grosso cordone, collocabile su un piano o direttamente sul pavimento. Con la collaborazione di Livio Castiglioni, Frattini scardina le tradizionali tipologie di apparecchi illuminanti e realizza un oggetto perfettamente funzionale anche se non privo – come è stato giustamente osservato da Pier Carlo Santini – di una sua inconfondibile e piacevole drolerie.
Frattini ha perseguito un’idea di design al tempo stesso elegante ed essenziale, libera da ogni eccesso come da ogni ridondanza, e armoniosamente capace di integrare organicamente ogni dettaglio nell’insieme.
Esigente con se stesso fino alla pedanteria, intransigente nel considerare la casa come un bene fondamentale per la vita dell’uomo che in essa si svolge, Frattini trasferisce il suo rigore anche agli oggetti o agli ambienti che progetta.
Emblematico del suo “metodo” e della sua visione è un oggetto tuttora cult come Kyoto, il tavolino progettato nel 1974 e messo in produzione da Bottega Ghianda: un capolavoro di ebanisteria, di alto artigianato, di sapienza costruttiva e realizzativa, con un piano costruito con centinaia di incastri successivi di “pettini” in massello di faggio.
Subito accolto nella collezione permanente del MoMA e ininterrottamente in produzione dall’anno della sua concezione (attualmente è prodotto da Poltrona Frau), è un esempio paradigmatico di come anche negli anni di massima celebrazione dell’estetica delle macchine Frattini sappia restare fedele a un metodo che non abdica mai alla presenza umana nella realizzazione del progetto. La vocazione umanista di Frattini trova conferma in un’altra delle sue invenzioni più memorabili, il caschetto giallo da cantiere disegnato per la Montecatini nel 1963, esempio pionieristico di uso della plastica in funzione di un design della prevenzione che conferma la sua attenzione non occasionale per temi ancor oggi scottanti come la sicurezza sui luoghi di lavoro e la protezione dei lavoratori.
Ma è poi un po’ tutto il suo lavoro che (a vent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 6 aprile 2004) ne fa una figura meritevole di essere ripensata, riscoperta e ricollocata in un ruolo più significativo dentro il panorama complessivo del design italiano: lo Scrittoio 530-532 messo in produzione da Bernini nel 1957 trasferisce la memoria storica dei vecchi mobili di famiglia che Frattini ben conosceva perché cresciuto fra di loro in un orizzonte di rigore estetico-funzionale che fonde il tipo dello scrittoio con quello del secretaire; la libreria rotante Albero realizzata nel 1959 si slancia verticalmente in un modello terra-soffitto che scardina il tipo tradizionale del mobile destinato ad accogliere i libri; i tavolinetti sovrapponibili realizzati per Cassina nel 1966 danno una risposta a un nuovo bisogno di convivialità ma al tempo stesso risolvono – grazie alla loro impilabilità – anche il problema dell’ingombro quando non vengono usati, mentre la poltrona e il divano Sesann (1970), morbidamente appoggiati al pavimento, sono una risposta concreta a quel bisogno di abitare meno formalmente rigido e composto che pure si era andato affermando nella seconda metà degli anni Sessanta.
Il bel volume Gianfranco Frattini. Design 1955/2003, recentemente pubblicato da Silvana Editoriale e curato dalla figlia Emanuela Frattini Magnusson, ripercorre ora la sua fertile produzione mettendo in risalto una volta di più lo stretto legame che nel lavoro di Frattini sempre intercorre fra l’oggetto e lo spazio: nella sua visione – come è stato giustamente notato: “non vi è salotto senza la sua lampada e non vi è cucina senza le sue posate”, in un tutto armonico che nel design vede davvero una possibilità concreta di rendere il mondo più abitabile e migliore.
Immagine di apertura: Gianfranco Frattini. Foto courtesy Poltrona Frau