Dire che è uno strumento portatile per la misurazione del tempo è assai riduttivo: da sempre, l’orologio da polso è stato anche uno status symbol. Un indicatore identitario. Un correlativo oggettivo della personalità e del carattere di chi lo indossa. In una parola: un artefatto comunicativo. Un orologio svizzero, in particolare, ancora all’inizio degli anni ’70 era il prodotto di una lavorazione manuale complessa e laboriosa, tramandata di generazione in generazione, e aveva costi non proprio alla portata di tutti.
Poi, quasi all’improvviso, il mercato viene invaso dagli orologi al quarzo di produzione asiatica: costano poco e misurano il tempo tanto quanto i costosi orologi meccanici di produzione elvetica. Per l’orologeria svizzera è la crisi. Profonda e irreversibile: una perdita del 35% di quote di mercato, oltre 65.000 posti di lavoro andati in fumo in pochi mesi.
È in questo scenario preoccupante che all’inizio degli anni ‘80 un manager incaricato da un gruppo di banche svizzere di supervisionare la liquidazione di due aziende di orologeria in difficoltà, Nicolas G. Hayek, ha l’idea di coniugare la tecnica produttiva degli orologi al quarzo con la qualità della tradizione elvetica (fatta di precisione, praticità, lunga durata) e, soprattutto, con il basso costo. Hayek prova ad adottare una tecnologia che diminuisce di molto lo spessore dell’orologio, che riduce di oltre la metà il numero di componenti normalmente necessari e che produce un oggetto perfettamente impermeabile e resistente all’acqua.
Swatch nasce così: innovazione tecnologica, sperimentazione produttiva, adozione di un nuovo materiale come la plastica e infine un marketing spregiudicato e fantasioso. Sulla scelta del nome circolano tuttora versioni controverse: c’è chi dice che deriverebbe dalla contrazione delle parole “swiss” (svizzero) e “watch” (orologio) e chi invece interpreta la “S” iniziale come l’iniziale della parola “second”, in base all’idea di fare di Swatch il “secondo orologio”.
Il primo Swatch viene venduto nel novembre 1983, esattamente 40 anni fa. Nel gennaio 1984 ne sono già stati venduti più di un milione. Nel giro di un anno si arriva a 10 milioni. Nel 1992, dopo dieci anni di presenza sul mercato, si supera la cifra di 100 milioni. Sono numeri da capogiro, soprattutto se si pensa che la produzione annuale delle più prestigiose maison di orologeria tradizionali oscillava fra i 20 e i 25.000 esemplari. Swatch vince perché introduce nel mondo un po’ paludato degli orologi da polso due elementi fortemente innovativi: la democrazia e la fantasia.
Democrazia perché è accessibile a tutti. Fantasia perché scardina l’austerità dei modelli tradizionali per aprire ai colori, alle immagini, al marketing. Già nel 1984, ad esempio, uno Swatch gigantesco, alto oltre 100 meri, con il cinturino color arancione, viene issato sul palazzo della Commerzbank di Francoforte, uno dei più prestigiosi e importanti edifici tedeschi, a significare la volontà di portare un elemento di giocosità e di allegria là dove prima c’erano solo seriosità e sobrietà.
Swatch vince perché introduce nel mondo un po’ paludato degli orologi da polso due elementi fortemente innovativi: la democrazia e la fantasia.
Se inizialmente gli Swatch sono di plastica, con il passar del tempo i designer dell’azienda sperimentano orologi realizzati con tessuti sintetici, gomma, alluminio, silicone. Nuovi materiali e nuovi colori. Swatch diventa l’orologio portatile e “parlante” per antonomasia. Allegro, chiassoso, sorridente. Unisex e transgenerazionale. C’è che ne indossa anche tre o quattro simultaneamente. Il modo di portarlo al polso diventa ulteriore elemento di connotazione comunicativa. E il marchio si espande, sperimenta, innova in continuazione. Ci sono ad esempio i Jelly Fish trasparenti, o i modelli Raspberry, Ice Mint e Banana che odorano davvero di banana, menta e lampone.
Accessorio di moda chic, a un certo punto Swatch comincia a dialogare intensamente con il mondo dell’arte: Il primo artista a collaborare con Swatch è Kiki Picasso nel 1984, poi è la volta di Keith Haring, che crea una serie di prototipi a metà degli anni Ottanta, e quindi quattro Swatch con i suoi disegni. Dopo di lui collaborano con il brand artisti, designer, architetti e registi come come Jean-Michel Folon, Mimmo Paladino, Mimmo Rotella, Akira Kurosawa, Spike Lee, David LaChapelle, Moby e Renzo Piano.
Dal 1990 diventa direttore artistico di Swatch Alessandro Mendini, che realizza diversi orologi Art Special con il suo design punteggiato e dai colori vivaci, ma promuove anche la collaborazione di altri artisti: basta pensare al coinvolgimento di una maestro novantenne come Bruno Munari, che viene convinto da Mendini a realizzare un progetto a tiratura limitata come Tempo libero, dove 12 dischi “indisciplinati” mescolano le ore in base ai movimenti del polso, giocando con la nostra frenetica percezione del tempo e suggerendoci che forse non è importante sapere esattamente che ora è, quanto riuscire a liberare il tempo dalle incombenze che lo soffocano.
Il rapporto con l’arte e con le grandi istituzioni museali del mondo si è rafforzato e consolidato nel corso degli anni ed è sfociato nell’anno del quarantesimo con il progetto Art Journey, un viaggio che attraversa l’arte dal XV al XX secolo, facendosi ispirare da stili e correnti diverse, da Botticelli e Lichtenstein, dal Rinascimento alla Pop Art, passando per le stampe di Hokusai e il surrealismo di Magritte. Le opere di questi artisti sono riprodotte sui cinturini degli orologi, con l’obiettivo di rendere l’arte “più accessibile e democratica”, e di portarla in strada, vicino alle persone.
Ma questo è solo uno dei tanti progetti che Swatch ha realizzato: nei suoi primi 40 anni di vita, l’azienda ha ideato e prodotto infatti oltre 5000 modelli, tutti diversi eppure tutti riconducibili alla medesima matrice originaria e progettuale: un esempio paradigmatico di oggetto contemporaneo, che sa unire unicità e serialità, e che flirta con acume e intelligenza con i flussi di desiderio dell’immaginario collettivo.