Questo articolo è apparso originariamente su Domus 707, luglio 1989.
Un milione di orologi venduti il primo anno, dieci milioni il secondo, cinquanta alla fine del quinto; dodici milioni negli ultimi sei mesi per un totale di 62 milioni di pezzi in poco più di un lustro. Queste le inequivocabili cifre del successo dell’orologio Swatch, che quasi da solo ha trainato la ripresa dell’intera industria orologiaia svizzera.
Eppure alla fine degli anni ’70 la tradizionale leadership europea nella fabbricazione di movimenti di precisione sembrava irrimediabilmente compromessa dall’invasione inarrestabile degli orologi giapponesi. Erano robusti orologi economici, analogici e digitali, spesso simili a piccoli computer con tanti tasti per diverse funzioni. Tutti si affidavano alla precisione dei movimenti al quarzo, inventati dagli svizzeri nel 1967 ma sviluppati e commercializzati in serie dai produttori orientali. Le fasce di mercato più base, quelle in cui è possibile vendere i grandi numeri, apparivano saldamente controllate dai giapponesi.
Se questa era una crisi terribile per molte piccole industrie europee, che cercavano di salvarsi puntando su modelli sempre più costosi ed esclusivi, ancora più grave era la situazione per l’ETA SA Fabrique d’Ebauches, di gran lunga il più importante fabbricante svizzero di movimenti, che rifornendo 1’80% circa delle aziende elvetiche, vedeva precipitare produzione e profitti. Nel 1980 l’ETA decise di provare a contrastare il successo giapponese con un prodotto economico ma di qualità, così da non irritare troppo i fabbricanti svizzeri più conservatori che temevano di veder screditata l’immagine prestigiosa dei propri modelli. Ma battere la concorrenza orientale con gli alti costi d’installazione e di manodopera europei rendeva estremamente difficile una sfida tutta da giocare sul terreno dell’innovazione tecnologica.
Sotto la guida del fisico Wilhelm Salate, una équipe di ingegneri cominciò a lavorare all’idea di un orologio di plastica assemblabile in modo totalmente automatizzato. Per ottenere questo risultato era necessario semplificare drasticamente i meccanismi, raggruppandoli in moduli preassemblati, ed evitare il montaggio dei singoli elementi con perni e viti su chàssis metallici, operazione ancora oggi effettuata manualmente con infinita e costosa precisione.
Nel 1981 il primo prototipo era pronto. Al posto degli oltre 90 pezzi che compongono abitualmente un orologio al quarzo, lo Swatch ne conta soltanto 51, inseriti in apposite sedi ricavate modellando direttamente la cassa in materiale sintetico, con un’innovazione paragonabile all’introduzione della carrozzeria autoportante nell’industria automobilistica. Invece delle viti metalliche, rivetti plastici e saldature ad ultrasuoni con una speciale chiusura del vetro che, saldato ermeticamente alla cassa, garantisce l’impermeabilità ai meccanismi.
Ma prima che potesse avere inizio la produzione occorreva mettere a punto tutti gli strumenti necessari: un materiale termoplastico malleabile ma resistente, i macchinari capaci di iniettarlo e stamparlo con l’assoluta precisione richiesta sia dalla cassa che da tutti i minuscoli componenti; e progettare una linea di montaggio automatica e a controllo elettronico. L’ETA, che nel frattempo era confluito nel gruppo SMH di cui fanno parte anche la Longines e la Omega, mise al lavoro i propri ingegneri che non solo seppero risolvere i problemi del nuovo orologio ma fornirono al gruppo un know-how estrema mente sofisticato e oggi molto richiesto.
Lo Swatch sarebbe stato prodotto in un unico ciclo di lavorazione, con controlli automatici di qualità ad ogni stazione di montaggio, dove gli eventuali pezzi difettosi sarebbero stati accantonati dalla catena produttiva. Alla fine del ciclo per ogni orologio vi sarebbe stato un test termico con sbalzi da 0° a 100° per la durata di 24 ore ed un controllo accurato della precisione e dell’eventuale datario. Tutto questo a garanzia della qualità per un orologio che non può essere riparato ma che è venduto ad un prezzo molto contenuto.
Risolti con una vera rivoluzione tecnica i problemi meccanici ed elettronici – ben sette brevetti proteggono le parti più innovative dello Swatch – restava da definire l’aspetto dell’orologio. Sebbene la duttilità della plastica consentisse di sbizzarrirsi in qualsiasi foggia, i responsabili della Swatch preferirono racchiudere tutte le novità tecnologiche in un guscio di forma assolutamente tradizionale, scartando ogni stranezza.
Quadrante rotondo a lettura analogica con tre lancette per ore, minuti e secondi, proporzioni e dettagli realizzati secondo le migliori regole di una lunga sperimentazione, con spigoli e raccordi morbidamente arrotondati per adattarsi alla forma del polso. Neppure il nuovo tipo di attacco fra la cassa e il braccialetto, in poliuretano stampato ad alta densità, introduce alcuna vera novità formale. Questo involucro così tradizionale si è prestato però alle più sorprendenti variazioni imposte da una campagna di marketing orchestrata con una regia impeccabile, che ha trasformato l’orologio in un fenomeno di moda.
Previsto in origine per una produzione di centomila unità all’anno, lo Swatch ha incontrato subito un incredibile successo che fin dalla prima apparizione, nella primavera del 1983, ha superato le iniziali ridotte disponibilità. A mano a mano che la produzione aumentava e che nuovi mercati venivano riforniti – in Italia lo Swatch è arrivato ufficialmente solo nel 1986 – le collezioni dei modelli venivano aggiornate. Come una casa di mode la Swatch ha presentato ogni primavera e ogni autunno una nuova collezione accuratamente preparata sotto la cura di Max Imgrüth, direttore commerciale, che vaglia le proposte provenienti da “consulenti” sparsi per il mondo e attenti ad ogni nuovo trend stilisti-co.
Bastano pochi cambiamenti per avere orologi colorati, trasparenti, con cinturini multicolore o traforati, con quadranti disegnati nei modi più diversi o affidati come mini opere d’arte a grandi artisti; pochi modelli sopravvivono ad ogni collezione per diventare dei classici, mentre i più cessano di essere prodotti scatenando fenomeni di autentico collezionismo.
Con una produzione così frammentata e flessibile – occorrono solo sei settimane per mettere in produzione un nuovo modello – la Swatch ha conquistato fasce di mercato sempre più ampie, indirizzandosi a consumatori molto diversi. Recentemente l’ufficio marketing e la centrale creativa sono stati spostati in Italia e le prossime collezioni saranno curate dall’architetto Matteo Thun; sembra infatti che il mercato italiano sia diventato nel campo degli orologi un attendibile termometro delle tendenze più avanzate. E oggi sembra che torni in auge il tradizionale orologio meccanico con carica manuale. Alla Swatch ci stanno già pensando.
Abbiamo chiesto all’architetto Matteo Thun, nuovo responsabile creativo della Swatch, come ha impostato il suo lavoro. “Anziché coordinare una serie di free-lance sempre diversi, come accadeva prima, abbiamo pensato di istituzionalizzare questo ‘caos creativo’ in una struttura stabile. Per la collezione del ’90 abbiamo un gruppo di 5 creativi italiani più 6 tedeschi, inglesi e francesi. A loro si assoceranno americani e giapponesi in occasioni particolari. Le collezioni sono strutturate seguendo la filosofia che la Swatch ha definito negli anni e organizzate in tre linee principali: classic, sport, fashion. Gli spunti vengono dal mondo della moda, partendo da Pitti Filati, Interstoff e altre manifestazioni che anticipano disegni, colori e trend tematici. La difficoltà consiste nel non restare vittime di un diktat moda, comunque più effimero del prodotto Swatch”.
Avete pensato a modelli molto trasgressivi o a nuove collaborazioni con artisti? “Abbiamo definito il Christmas Special che sarà una cosa fantastica: trasgressivo e molto divertente. Per quanto riguarda le collaborazioni con artisti sono personalmente molto contrario. Il messaggio artistico è per natura elitario, lo invece vorrei ridurre in termini molto semplici messaggi ermetici per essere comprensibile in tutte le fasce d’età, mantenendo il quality mass appeal dello Swatch, che sono convinto non si sia ancora esaurito. Dipenderà da ciò che saremo capaci di trasmettere.”