Quando si ragiona sui rapporti fra cinema e design la domanda da porsi non è quanto design c’è nei film italiani, bensì cosa ci fa il design nei suddetti film. La mia convinzione è che il design può regalare al cinema un significativo valore se e quando va oltre la mera presenza “decorativa” o “arredativa” per far propria l’ambizione progettuale di generare spazi che non si limitano ad ospitare l’azione ma che la influenzano, la connotano e interagiscono con essa.
Il film che Francesca Archibugi ha tratto dal romanzo Il colibrì di Sandro Veronesi poteva essere una bella occasione per disegnare spazi e ambienti in cui il design diventava elemento non trascurabile nella costruzione identitaria dei personaggi. Nel romanzo di Veronesi infatti a un certo punto Marco, il protagonista, invia al fratello Giacomo un inventario dei mobili e degli oggetti di design contenuti nella casa appartenuta ai genitori (con i n° dei pezzi, il nome dell’oggetto, il nome del designer, l’azienda, i materiali e il valore stimato), con l’intento di metterli all’asta. Ma fa una premessa, in riferimento alla storia tragica della famiglia: “Ricorda che le cose sono innocenti”, dice.
L’inventario è accurato e rigoroso e dà l’idea di una casa tutta arredata tra gli anni ’60 e gli anni ’70 da due persone, i genitori del protagonista Marco, che condividevano il gusto del loro tempo e non avevano problemi economici. Composto da un centinaio di pezzi, l’inventario presente nel romanzo annovera oggetti mitici come il divano di Mario Bellini Le Bambole, la lampada Saffo di Mangiarotti per Artemide, le sedie Planula di Carini, il Totem Brionvega, le Plia, le Teti, un esemplare della lampada Gherpe di Superstudio, la poltrona Sacco di Zanotta e così via.
Prende forma, attraverso quell’inventario, l’idea di una casa in cui il design collezionato con passione e con amore diventa elemento connotativo non solo di un gusto, ma di una vera e propria idea di casa, forse perfino di una filosofia dell’abitare. Cosa resta di tutto ciò nel film di Francesca Archibugi? Un’atmosfera. Disseminati qua e là – soprattutto nel soggiorno e della stanza dei fratelli – appaiono alcuni pezzi d’epoca che evocano un gusto, anche se non riescono a dare quell’idea di coerenza e di scelta consapevole che invece le pagine del romanzo trasmettevano.
Ecco allora far capolino qui e là oggetti come le lampade Eclisse di Magistretti, la lampada 265 di Rizzato, la Sacco di Gatti, Paolini e Teodoro, il Boby di Joe Colombo, le librerie in Abs di Artemide, la lampada Passiflora nell’archivio di foto in bianco e nero della madre…
La coerenza cronologica è di massima rispettata, alcune assenze (rispetto all’inventario del romanzo) potrebbero essere dovute alla difficoltà di reperire i pezzi, ma nel complesso l’impressione che se ne ricava è che anche il film – come il personaggio che gli dà il titolo – si muova a rotta di collo e vada avanti e indietro nel tempo per restare di fatto saldamente insediato lì dove era partito: nella villa affacciata sul Tirreno dove la storia non a caso inizia e finisce.
Ancora una volta – come in molti suoi film precedenti – le case nel cinema di Archibugi hanno un’anima. Le cose meno. Le cose appaiono sullo sfondo, arredano, generano un ambiente, ma non sono mai protagoniste di un progetto, di un conflitto, di un’emozione, come invece lo è la casa.
Sono innocenti, le cose del film, certo. Ma in un certo senso sono anche indifferenti. Estranee agli accadimenti. Con però almeno due eccezioni evidenti: il plastico ferroviario e il plastico della casa a cui il padre ingegnere lavora per tutta la vita, trasformando i personaggi in statuine, quasi a voler bloccare in una condizione di stasi effettiva e di immobile permanenza, in una specie di teatrino, non solo le cose ma anche la vita di personaggi instabili e oscillanti, che si agitano e fremono e corrono per ritrovarsi sempre e comunque al punto di partenza. Dove ci sono le cose, innocenti e indifferenti, ad aspettarli.