“Na tazzulella 'e cafè”, “cornetto e cappuccio”, “macchiato con brioche”: la variazione dialettale non incide il legame imperturbabile che l’italiano ha con il bar, generatore autentico e condiviso, forse persino più del calcio, di identificazione nazionale. Una mitologia, un culto che non è solo appetito, ma anche la conferma squisitamente architettonica di come il consumo di qualsiasi cibo o bevanda non sia mai slegato dalle estetiche, dalle prossemiche e dai rituali del posto che lo accoglie, in un nesso strettissimo tra istanze del progetto e cultura immateriale.
Sull’origine e l’etimologia del bar all’italiana esistono ipotesi molteplici che non esitano a scomodare i Romani con la loro taberna ristoratrice, tra le prime attività commerciali ad ancorarsi ad un luogo specifico, aperto su strada, per somministrare cibo ai viandanti. Altra nota suggestiva, quella che legge la parola “bar” come acronimo di “Banco a Ristoro”: non solo il conforto alimentare, dunque, ma anche un bancone, un arredo e una linea di demarcazione fisica che segna longitudinalmente lo spazio, separando in maniera netta ed inequivocabile il posto degli esercenti da quello occupato dai clienti. Certo è che per aspettare l’arrivo del caffè - protagonista, o spalla? di questo indissolubile duo - sarà necessario attendere l’intermediazione degli ottomani, che insieme all’Assedio di Vienna porteranno nell’Europa nel XVI il bricco cezve e con esso l’abitudine per una bevanda elisir ed eccitante, guardata con sospetto dai Papi ma infine sdoganata in virtù dell’intensità di un gusto e un aroma capaci di raccogliere consenso e dipendenza trasversale.
In Italia, le aperture dei primi caffè si succederanno nel corso del XVIII secolo: il Caffè Florian a Venezia (1720), il Pedrocchi a Padova (1722), Gilli a Firenze (1733), l'Antico Caffè Greco a Roma (1760), Al Bicerin a Torino (1763) e poi ancora il Caffè degli Specchi a Trieste (1837) e il Gran Caffè Gambrinus (1860), che oggi festeggia i 150 anni dall'apertura purtroppo denunciando il rischio chiusura a causa degli effetti della pandemia, si affermeranno tutti come ritrovi della vita aristocratica ed intellettuale, accogliendo peraltro nella propria scenografia spaziale il passaggio alla rivoluzione del ferro e del vapore con le prime, magnificenti macchine da caffè che a inizio Novecento vanno ad occupare lo spazio centrale del bancone, mettendo in scena il fascino e riverenza per l’industrializzazione nascente.
Ma è sempre nel corso del Novecento, ed in particolare dopo le due guerre mondiali, che il bar soppianterà il caffè inteso come luogo, affermandosi come ritrovo meno monumentale quanto autenticamente popolare, democratico e capillare. Del caffè, il bar recupera lo spartiacque del banco adattandolo però ad un locale meno ampio e spesso sviluppato in lunghezza. Non più a forma di L e di U ma ora presente anche come piccola linea retta, il bancone si formalizza attraverso una serie di arredi che ne corroborano la funzionalità e l’efficienza nella velocità delle prestazioni: perché a differenza degli omologhi stranieri, mai il bar all’italiana ha perso il vizio della tazza consumata in piedi, spesso gomito a gomito con altri clienti, di fronte ad un barista onnipotente – anche grazie alla pedana leggermente sopraelevata su cui si muove – di cui nessun’altra nazione europea ha mai saputo imitare la velocità di esecuzione.
È dunque per assecondare l’ottimizzazione dei gesti attraverso lo spazio che retrobanco e sottobanco si attrezzano via via con mensole per gli alcolici, alzate e quindi frigoriferi a scomparsa e vetrine climatizzate per la pasticceria e i salati. Ed è sempre intorno a queste costanti spaziali, integrate dai tavolini – nei casi più umili dei piccoli piani di appoggio fissati alla parete – che i materiali segnano l’evoluzione dell’estetica dei bar nel corso del Novecento, esprimendo la rincorsa tecnologica di un secolo che, dal predominio di marmi, specchi e ottoni – o ancora legno, marmo e ferro per le realizzazioni più povere – passa senza soluzione di continuità alla sperimentazione di formica, alluminio e laminati. Il racconto del bar del Novecento è anche un inevitabile passaggio del testimone tra artigianato e standardizzazione industriale: ricordiamo a questo titolo IFI, azienda italiana due volte Compasso d’Oro (2014 con Bellevue Panorama® di Marc Sadler, 2018 con PopApp del Dipartimento R&D, Menzione d’Onore sempre nel 2018 a Colonna di Giulio Iacchetti) che per prima ha lanciato nel 1968 il banco da bar industriale, codificandone la natura modulare a vantaggio di una maggiore possibilità di diffusione.
Luogo dell’anima prima ancora che dei sensi, complice furtivo di alzatacce precoci, bicchieri della staffa o conversazioni casuali con gli sconosciuti, il bar all’italiana non ha sbiadito la sua aura neanche in occasione della discesa in Italia dei primi bar americani o dei caffè da coworking. Certo, è forse con un certo languore che oggi lo ricordiamo al suo meglio nelle tante incarnazioni fuori dal tempo che ancora costellano l’Italia, magari quella di provincia; che è poi quello che, giocando con il marketing della memoria, fanno oggi quei progetti che strumentalizzando il vintage danno vita a infinite repliche affogate di cementine ben peggiori dell’originale. Eppure, oltre lo slancio nostalgico, danno da pensare i progetti recenti che, consapevoli di questo background identitario, attualizzano il bar alla luce dei nostri giorni, ridandogli smalto. Si pensi alla recente ristrutturazione del Caffè Farnese di Roma, che riattualizza l’idea di un bar di piccola taglia ma borghese attraverso una palette colori densa e atemporale, o ancora i tanti bar pop-up apparsi durante le design week, che giocano sulla leva scenografia a scapito, spesso, della qualità del servizio (ed ecco affiorare alla mente l’inimitato Bar Basso, bar a cocktail tanto caro alla design community che resta un originale migliore di ogni replica).
Cambierà ancora pelle, il bar di domani? Ci sentiamo di scommettere che la tecnologia ne ridefinirà i connotati, rendendolo magari mobile, interattivo, attrezzato con materiali intelligenti – magari, visto il periodo, sanificati – e, chissà, forse più attento all’equilibrio nutrizionale della sua carta. Ragioni, queste, per ripensarne il vincolo affettivo? Non finché esisterà un bancone, un barista, e il suono di na tazzulella 'e cafè appoggiato sul piattino.