Venerdì sera abbiamo intravisto il post su Instagram e Facebook che sanciva la fine di Ventura Projects. Per chi non lo conoscesse, Ventura è stato l’evento di design più dinamico degli ultimi 11 anni al Fuorisalone. È nato per mettere in luce il lavoro dei designer giovani e degli studenti di design, con il noto format di Ventura Lambrate – che è stato letteralmente come avere un pezzetto di Olanda a nord-est di Milano –, e la scenografica Ventura Centrale, nei magazzini abbandonati di Stazione Centrale. Ha inoltre lanciato edizioni a Dubai, New York, Kortrijk, Londra e Berlino. “Ne parliamo domenica, saremo più tranquille”, mi risponde al messaggio.
Quando chiamo Margriet Vollenberg, fondatrice di Ventura Projects, e le chiedo come sta, ribatte velocemente “Te l’ho chiesto prima io!”, quasi per prendersi un po’ di tempo prima della densa conversazione che ne è seguita. La sua voce era calma, con pause nei punti critici e lasciandosi andare a un po’ di umorismo verso la fine. La decisione di chiudere Ventura, proprio un paio di giorni prima della riapertura ufficiale della maggior parte delle attività in Italia, mi è sembrata dissonante, in contrasto con la sensazione generale del “facciamo finta che non sia successo niente”, così ho voluto verificare se fosse davvero la fine. Sì, lo è. A farle da cornice il cinguettare di uccellini in quella che pareva essere la giornata più bella che Utrecht avesse mai visto.
La conversazione inizia con le sue lamentele sulla totale mancanza di mascherine in Olanda e poi, all’improvviso: “Sai qual è la cosa folle, Marianna? Il 13 febbraio abbiamo avuto una conferenza stampa, il giorno dopo quella del Salone e, naturalmente, la gente ci chiedeva come avremmo affrontato il Coronavirus. Ovviamente dovevamo seguire le direttive del Salone, ma poi, neanche una settimana dopo, è stato un disastro. Il mondo è andato a rovescio”.
Allora, cos’è successo?
È successo che Milano è stata rinviata una prima volta. Abbiamo una team di dieci persone, e abbiamo lavorato durissimo per quello che doveva essere il più grande Salone di sempre. I rinvii settimanali hanno stancato molto la squadra per poi scoprire che non si sarebbe fatto nessun Salone”, fa una pausa. “Lentamente senti che tutta l’energia scivola via e pensi soltanto: Oh mio Dio, cosa possiamo fare adesso? Cosa facciamo con gli investimenti fatti? E cosa facciamo con i pagamenti ricevuti? E con i pagamenti non ricevuti? Come possiamo riorganizzare tutto questo?
Abbiamo lavorato durissimo per quello che doveva essere il più grande Salone di sempre.
Quest’anno Ventura aveva cinque grandi progetti in lista e, giorno dopo giorno, sono stati cancellati tutti, inesorabilmente.
Sai, un giorno sei con una squadra felice, sei una’azienda sana e stai lavorando all’edizione più impegnativa di sempre, e poi, solo una settimana dopo, non c’è più niente all’ordine del giorno. Così, all’inizio cerchi solo di capire come sopravvivere, come aiutare i tuoi clienti. Devi capire cosa sta succedendo, come si sta muovendo il governo, cos’è quella confusione che ha coinvolto tutti. E poi – sfortunatamente tutto troppo in fretta – capisci qual è la situazione, qual è la tua situazione finanziaria e cosa significhi. Alla fine del mese scorso ho dovuto licenziare cinque persone e alla fine di questo mese ho chiuso l’ufficio in Italia, dove lavorano due persone. E anche altri progetti sono stati cancellati o rimandati, come l’Expo a Dubai a ottobre”.
Noi siamo una piccola azienda. Sembra grande, ma siamo abbastanza piccoli. Sopravvivere con dieci persone per un anno intero senza entrate e solo uscite è semplicemente impossibile.
E quando quando hai capito che era tutto finito?
Capirlo è stato di per sé un enorme lavoro: ho parlato con molti designer e clienti, per tenerli aggiornati, ovviamente. Ma volevamo anche sapere come stavano, se stavano bene, se avevano bisogno di qualcosa, com’era la situazione da loro. Sai cosa? Era sempre più chiaro che a prescindere dalle evoluzioni della pandemia – e ancora non sappiamo quali saranno perché nessuno ha una sfera di cristallo per vedere il futuro – le cose cambieranno. Ovviamente gli espositori di quest’anno mi chiedevano di poter trattenere parte del pagamento per utilizzarlo l’anno prossimo. Molte compagnie aeree stavano adottando questa strategia dei voucher, distribuendo buoni e così via, ma noi siamo una piccola azienda. Sembra grande, ma siamo abbastanza piccoli. Come si può andare avanti? Sì, posso sopravvivere per qualche mese, ma sopravvivere con dieci persone per un anno intero senza entrate e solo uscite è semplicemente impossibile. Poi pensavo che ci sarebbe stata in ogni caso una crisi economica. È molto difficile per un’imprenditrice come me prendere decisioni a lungo termine basandomi sulle informazioni disponibili, che rappresentano solo il 20% delle informazioni che servono per prendere una decisione ponderata: non hai idea se ci sarà una seconda ondata di coronavirus, non hai idea di come sarà la situazione finanziaria globale tra pochi mesi, semplicemente non si sa ancora niente.
Se continuassimo in questo modo daremmo risposte vecchie a nuove domande e sono sicura che il mondo del design avrà domande completamente nuove
Così ho deciso di fare le cose in maniera diversa, non potevamo continuare come prima. Ho pensato che se avessimo continuato così avremmo dato risposte vecchie a domande nuove e sono sicura che il mondo del design avrà domande completamente nuove. I miei futuri clienti non si chiederanno come fare a esporre a Dubai, avranno altri tipi di domande e non posso permettermi di dare loro risposte vecchie. Quindi devo prima prendermi una pausa e capire quali sono queste domande, di cosa abbiamo bisogno, considerando che siamo ancora nel bel mezzo di una crisi incredibile”.
Non è un voltare le spalle a Milano?
Me lo sono chiesta anch’io. Milano ha dato molto alla mia azienda e anch’io ho dato molto alla città. Se davvero ho a cuore il design a Milano, credo di dover iniziare a pensare cosa le servirà nel futuro prossimo. Continuare con le stesse cose che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni, non è ciò di cui avremo bisogno dopo una crisi. Ma è difficile pensarci perché ci troviamo ancora nella vecchia struttura, dove cerchiamo di destreggiarci con le palline per aria, cercando di tenerle in aria ma non ci rimangono, e sai perché? Perché il mondo è cambiato. Non abbiamo idea di quello che sta succedendo. Dirlo a me stessa, solo una settimana fa, proprio domenica scorsa, dover ammettere che Ventura Projects non esiste più – e credimi, non esiste più, né finanziariamente, il team non esiste più, ma neanche il mondo in cui è nata Ventura Projects esiste più – è stato più giusto che rassicurare i miei espositori con frasi imbarazzanti del tipo “sì, ci vediamo nel 2021”, perché è impossibile.
Prendendo questa decisione radicale do anche a me stessa e alla mia azienda il tempo e lo spazio per pensare a quali saranno le risposte per il futuro del design.
Prendendo questa decisione radicale do anche a me stessa e alla mia azienda il tempo e lo spazio per pensare a quali saranno le risposte per il futuro del design.
Qual è il futuro degli eventi?
Ho avuto modo di pensarci un pochino. Non so ancora quale sia la risposta, perché gli eventi cambieranno. A essere sinceri, lo dico già da qualche anno. Ma credo che ora lo scenario cambierà ancora di più. Non sto dicendo che tutti si daranno al digitale, non credo che questa sia la vera soluzione, perché è una soluzione molto frettolosa: è come avere un foro da cui esce l’aria e lo si tampona con un dito, cercando di bloccarne l’uscita per un po’. Le soluzioni digitali che abbiamo ora sono come un dito su un foro: non puoi tenerlo lì per sempre. E poi non è quello che vogliamo. Gli eventi nascono per connettere le persone, per vedersi fisicamente, per fare accordi attraverso incontri reali. Penso davvero che alcune cose cambieranno, ma non mi è dato sapere come, perché ho esattamente le stesse informazioni che hai tu. Spero solo di sapere quali saranno le domande del mondo del design, e magari di sapere che tipo di risposte potrò dare, per essere in grado di dare una mano”.
Le soluzioni digitali che abbiamo ora sono come un dito su un foro da cui fuoriesce aria: non puoi tenerlo lì per sempre.
Ti stai solo prendendo una pausa o è un vero e proprio cambio di carriera?
Questo è il mio mondo e, anche se in questo periodo a tratti la negatività mi ha fatto pensare di non volerne più fare parte, questo è quello so fare: mi piace aiutare i designer nel loro percorso. Questo è quello che voglio fare. Svegliarsi in questi giorni di coronavirus è piuttosto difficile, perché sentiamo di non avere più uno scopo, chiedendoci “cosa farò adesso, tutto il giorno?”. Naturalmente ci teniamo ancora impegnati, ho una figlia, la scuola a distanza da seguire, una famiglia... e un’azienda in difficoltà. Quando hai un’azienda la missione è molto chiara. Sai esattamente perché lavori così duramente e nel mio caso voglio aiutare i miei clienti a realizzare i loro sogni.
Se davvero ho a cuore il design a Milano, credo di dover iniziare a pensare cosa le servirà in futuro. Continuare con le stesse cose che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni, non è ciò di cui avremo bisogno dopo una crisi.
Ti senti un po’ sollevata dopo questa decisione?
No, non sollevata. È qualcosa per cui ho lavorato undici anni, questo era il mio ventunesimo anno di lavoro a Milano durante il Fuorisalone. Non mi sento sollevata perché il Salone è anche una fonte di energia, ma sono felice di aver dato a me stessa e alla mia squadra un po’ di spazio per pensare ad altre cose. Mi sono anche sentita dire “ma sì, ma tra due mesi tutto riaprirà e avrai di nuovo il tuo lavoro, perché non continui?” Non sono un parrucchiere o un ristorante, nel mio caso non basta “aprire” perché le cose arrivino. Il mondo degli eventi si muoverà davvero molto lentamente. Anche il mondo della cultura: siamo stati i primi a sentire le ripercussioni di quello che è successo e saremo gli ultimi a ripartire. Per me chiudere Ventura è anche una metafora, è un messaggio. Quando abbiamo iniziato 11 anni fa, nessuno ci ascoltava, siamo andati in un quartiere molto strano di Milano e tutti ci dicevano “non fatelo lì!” e poi ci siamo trasferiti ai Magazzini Raccordati e fu anche quella una missione impossibile. In un certo senso siamo sempre stati un po’ ribelli perché credevamo in quello che facevamo. E credo anche in quello che dico ora: dobbiamo affrontare il fatto che le cose stanno andando davvero male, anche nel mondo del design. Ci sono tante aziende in difficoltà e la cultura o il design sono l’ultima cosa a cui pensano i governi, logicamente, anche se in territori come Milano è un elemento vitale.
Negli ultimi quattro giorni ho chiamato tutti i miei espositori – 127 – il che significa che ho parlato con Messico, Giappone, Brasile, Israele, Turchia, Canada, Nuova Zelanda, Italia e Danimarca: siamo tutti in crisi. Tutti. E abbiamo tutti problemi diversi: in Turchia la lira è scesa e quindi c’è una crisi economica in atto, in Corea sono davvero spaventati per la seconda ondata di coronavirus, in America sono arrabbiati con i loro governi, in Brasile hanno paura che ci sia una crisi dura tra la popolazione e in Sudafrica vedono che la gente è in difficoltà perchè manca il cibo. È una situazione assurda, ragazzi. Non l’abbiamo mai avuta prima, ed è troppo grande per noi.
Ventura Projects non esiste più perchè non esiste più finanziariamente, il team non esiste più, ma neanche il mondo in cui è nata
Cos’avevi in mente quando hai avviato Ventura?
Per me è sempre stato molto chiaro. Mi sono laureata molto presto, a 21 anni, poi ho lavorato come designer per cinque anni a Milano. Sapevo di voler fare l’imprenditrice nel mondo del design – i miei genitori avevano un’azienda internazionale di trasporti, quindi questa mentalità mi ha sempre accompagnata, ma devo dire che quando fai la Design Academy, impari così bene a sopravvivere che organizzare una fiera è una passeggiata! Lavoravo per il Salone, per Superstudio, per alcuni clienti olandesi, per Marcel Wanders quando Moooi non esisteva ancora e mi aveva chiesto di aiutarlo a lanciare un nuovo marchio, sapevo esattamente cosa fosse Milano e sapevo quanto potenziale ci fosse. In quegli anni anche il Fuorisalone stava diventando strategico e mi sono chiesta: “Dove sono gli studenti? Dove sono i più giovani? Avevo quindi una missione molto chiara: portare le giovani generazioni, i giovani talenti in uno spazio il più possibile internazionale, dando loro i mezzi per entrare nel mercato milanese che aveva un ottimo pubblico ma spazi molto costosi. Ho creato per loro delle possibilità perché allora, se eri un giovane designer in Messico o in Giappone, probabilmente non avevi ben chiaro chi chiamare o come muoverti. Noi aiutavamo i designer in quasi tutto, con un approccio aperto, senza obblighi. Potevano muoversi liberamente, volevamo davvero aiutarli. È così che ha preso il via Ventura Lambrate. Il resto lo conosciamo.
Dobbiamo affrontare il fatto che le cose stanno andando davvero male, anche nel mondo del design. Non sono un parrucchiere o un ristorante, nel mio caso non basta “aprire” perché le cose arrivino.
Hai portato un po’ di Olanda a Milano, cosa hai imparato dall’Italia?
Ho imparato che abbiamo tutti culture del design diverse. E questo è molto interessante. In Olanda siamo più concettuali. Ci formiamo sui concetti e come risolverli quasi da un punto di vista olistico. In Italia sono rimasta molto colpita dalle competenze, dalle capacità di disegno, dall’intelligenza nel produrre qualcosa. È anche logico perché è un paese più industriale. Per esempio, ci sono molti designer in Olanda che non hanno mai lavorato con un produttore, e in Italia questa è la prima cosa che fai. Il Made in Italy è una sorta di marchio di qualità. Ma anche i designer in Asia o in Sud America hanno mentalità diverse e questo, per me, era molto importante da far vedere. Ed è per questo che ho iniziato a lavorare con le accademie, per mostrare le nuove generazioni di tutto il mondo. Così hanno iniziato a conoscersi anche tra di loro, perché per stare insieme una settimana giorno e notte vuol dire tanto, è come rendere il mondo un po’ più piccolo.
Quando hai avviato le edizioni di Ventura a Dubai, Londra, New York eccetera, quali erano le differenze con quella di Milano?
Erano completamente diverse, prima di tutto da un punto di vista organizzativo. A Milano curavamo tutto noi dalla A alla Z mentre nelle altre edizioni molto spesso c’era già uno contesto predisposto. A Kortrijk, ad esempio, abbiamo ricevuto la richiesta specifica di avere solo designer sotto una certa età, un po’ come un Salone Satellite. Poi a New York volevano designer olandesi, a Dubai volevano designer occidentali perché in casa esponevano già molti designer asiatici; erano punti di partenza diversi. Il punto di partenza per Milano, invece, era che volevamo giovani talenti e aziende con idee radicali e aziende e studi di design pieni di coraggio, volevamo dare loro una piattaforma dove potersi esprimere. Questo è ciò che stava facendo Ventura a Milano.
Vedere direttori di grandi aziende che parlavano con i giovani designer. Quei momenti sono stati davvero memorabili
C’è qualche momento memorabile che ti viene in mente?
Oh my God, oh my God (dice ridendo)... Molti. Caspita, è difficile. Quando ci siamo trasferiti da Lambrate abbiamo dovuto rifletterci attentamente perché c’era una bella atmosfera con giornate di sole, tutti all’aperto, avevamo la sensazione di trovarci in un festival, sensazione molto diversa da Rho Fiera. Vedere direttori di grandi aziende parlare con i giovani designer. Quei momenti sono stati davvero memorabili. Ma anche il dietro le quinte, perché a Milano esistono tanti spazi incredibili. Ricordo quando abbiamo spaccato la serranda dei Magazzini Raccordati – dopo 30 anni, le chiavi non le aveva più nessuno – eravamo senza parole, dicendo solo “wow, questo è esattamente quello che speravamo ci fosse dietro”, anzi molto meglio. Ricordo di un appuntamento lì con Luca Nichetto per vedere lo spazio e discutere quelle che potevano essere le possibilità e lui continuava a ripetere “qui tutto è possibile!”.
E in più è stato memorabile lavorare con una squadra così piccola, per lo più di sole donne – c’era naturalmente Fulvia Ramogida, a capo della squadra italiana, insieme a Ilaria Casetto – e soprattutto una squadra molto giovane. Quando ho iniziato avevo 32 anni e ora ne ho 42, quindi sì eravamo decisamente giovani. Ho corso anche dei rischi. Ricordo anche mostre spettacolari come Time Machine di Lee Broom il primo anno di Ventura Centrale, una giostra che girava lentamente, così poetica in quel grande spazio vuoto. Mentre mi trovavo lì in piedi, con la musica classica di sottofondo, è entrato un signore, credo avesse 90 o 95 anni e mi ha detto di aver lavorato per anni proprio in quel luogo. Si è emozionato tantissimo perché pensava di non poter mai più rivedere quello spazio in vita sua. Ciò che ricordo con più chiarezza sono le facce felici dei visitatori, degli espositori, la gente che arrivava da me eccitata dicendo “oddio, ho appena parlato con non-so-chi e forse mi arriva una commissione!”
I still remember the first or the second year that right in the middle of the design week the eruption of the volcano in Iceland stopped aerial traffic and everybody were stuck in Lambrate!
E i momenti difficili (prima del coronavirus)?
Assolutamente, ne abbiamo avuti molti! Il primo o il secondo anno c’è stata, forse ti ricordi, l’eruzione del vulcano in Islanda! Quello è stato davvero incredibile, haha! È accaduto proprio a metà della design week e poi sono rimasti tutti bloccati a Lambrate (dice continuando a ridere). Allora abbiamo organizzato degli autobus: ricordo che un’orchestra olandese che veniva da Roma passò da Lambrate per tirar su alcuni designer olandesi per riportarli in Olanda. Ma ci sono stati anche molti momenti frustranti, come quando i prezzi salirono anche a Lambrate. La gente vede che hai successo e pensa che più i visitatori arrivano e più diventi ricco, ma non è così che funziona! Più visitatori arrivano, più il tutto diventa difficile da gestire perché i visitatori non pagano il biglietto d’ingresso e bisogna gestirli. Queste erano vere difficoltà perché quando organizzi una mostra di design non pensi che tu debba anche organizzare 150 mila visitatori in una settimana. I momenti difficili non ci hanno mai fermato – tranne adesso.
Quando avete deciso di lasciare Lambrate è stato un po’ uno shock. Ci furono persino proteste da parte dei cittadini che si erano proiettati nel futuro di Ventura. Lì vi siete resi conto di essere qualcosa di più di un semplice “evento”?
Sì, sì. Me ne sono resa conto. Ed ero anche un po’ arrabbiata per questo. Abbiamo sempre organizzato tutto con i nostri soldi, è sempre stato un nostro investimento. Non ho mai avuto grandi sponsor, né finanziamenti dalla città e in quel momento era sorto un grosso problema perché i prezzi degli affitti stavano lievitando, ma i miei clienti erano sempre quei giovani designer. A un certo punto ho parlato con 19 diversi affittuari che tra loro dicevano: “Ventura è molto grande, quindi aumenteremo l’affitto l’anno prossimo”. Così abbiamo organizzato una sorta di assemblea di quartiere. Loro grazie a noi hanno avuto la fortuna di poter affittare immobili che da oltre 20 anni nessuno voleva, e questo grazie a Ventura. Avevo spiegato che non era tanto su di noi che si poteva guadagnare, quanto sul futuro del quartiere”. Ma le persone non l’hanno capito o non l’hanno voluto vedere, così ci siamo dovuti muovere altrimenti. Quei costi non erano più sostenibili. Poi sono nate diverse organizzazioni che in qualche modo hanno usato il nostro nome nella loro promozione. Ricevevo messaggi, telefonate e mail dai miei clienti dicendomi che alcune organizzazioni locali stavano offrendo loro spazi espositivi come Ventura Lambrate ma non eravamo noi, com’è possibile? A quel punto non ce l’abbiamo più fatta e nel frattempo sono arrivate nuove opportunità, come Ventura Centrale e Ventura Future.
Parliamo del “Metodo Vollenberg”...
(Scoppia a ridere) È facile: intuizione e “la sensazione nello stomaco”.
Avete avuto circa 7.000 espositori. Te li ricordi tutti?
Credo di ricordare quasi tutti i lavori, forse non tutte le facce e di sicuro non tutti i nomi, perché non sono molto brava coi nomi, ma sì sono abbastanza brava a ricordare i lavori.
Quando organizzi una mostra di design non pensi di dover organizzare anche la gestione di 150 mila visitatori in una settimana e i servizi annessi come cibo e toilette.
Hai un messaggio per la comunità del design e per i giovani designer a cui da ora in poi mancherà un punto di riferimento?
Di rimanere in contatto. Noi designer tendiamo a dire che lavoriamo assieme, è diventata un po’ una moda, quella di fare un lavoro “interdisciplinare”. Ma penso che alla fine il design sia un lavoro piuttosto solitario. Credo, tuttavia, che – soprattutto ora – sia importante continuare a parlare tra di noi. Il nuovo mondo in cui stiamo entrando farà nascere molte domande nel campo del design perché dobbiamo reinventarlo. Non abbiamo ancora finito. Vorrei ringraziare il mio team, quello italiano, quello olandese, i 7.000 e più designer che ci hanno dato fiducia e anche la città e i visitatori, perché a un certo punto la gente ha dovuto recarsi fino all’altro capo della città e sforzarsi di osservare attentamente i progetti. Alcuni di questi non erano facili da comprendere, anzi, ma da qui sono nati molti scambi e conversazioni davvero interessanti. Abbiamo chiesto tanto ai visitatori, quindi vorrei ringraziarli per aver trovato il tempo di capire.
Immagine di apertura: Lee Broom, Time Machine, Ventura Centrale 2017, foto Andrea Astesiano