Giuseppe Arezzi (Ragusa, 1993) si laurea alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano con un progetto audace intitolato Beata Solitudo – una ricerca sugli eremiti mutanti, tecnologici e primitivi di oggi – sviluppato con Francesco Faccin e Francesca Balena Arista. Come avvenuto in precedenza ai Formafantasma, per il giovane designer il progetto di tesi è diventato la prima occasione di visibilità. Influenzato dall’incontro con Michele de Lucchi e Andrea Branzi al Politecnico di Milano, il lavoro di Arezzi si concentra sulle implicazioni antropologiche dello spazio, a cavallo fra design e architettura.
Com’è nato il tuo progetto Beata Solitudo?
Beata Solitudo è nato come tesi di laurea magistrale al Politecnico di Milano. Durate la mia ricerca mi sono interessato a quegli uomini che oggi decidono diventare eremiti. La scintilla è stata una foto di Tiziano Terzani con un laptop: era un eremita contemporaneo. Mi sono poi imbattuto nel progetto fotografico Into the Silence di Carlo Bevilacqua, su quegli uomini e donne che hanno compiuto questo tipo di scelta e si sono ritirati nei deserti americani, o nelle isole siciliane, nelle valli australiane o nelle campagne francesi. Questa figura è diventata l’ipotetico committente di un ipotetico progettista del futuro. Beata Solitudo è stato esposto nel 2017 in “Una Stanza Tutta Per Sé” a Cantiere Galli Design a Roma, a cura di Domitilla Dardi.
Tu definisci l’uomo-eremita del XXI secolo come mutante, tecnologico e primitivo. Come questa definizione ti ha guidato nel progettare lo spazio?
L’eremita è mutante perché adattabile e nomade, del XXI secolo per l’uso della tecnologia, che adopera in simbiosi con le risorse naturali. Primitivo perché autosufficiente: alleva animali, coltiva frutta e verdura, fa lavori manuali. Il progetto parte da questa mia definizione: l’architettura è smontabile e modulare, concepita come una serie di telai in legno combinati a materiali tessili di rivestimento. Diventa una casa di tappeti in Mongolia o nel deserto, di palme nei paesi equatoriali, di pelle di foca in Antartide.
Ti identifichi con questa figura? E qual è il tuo rapporto con la tecnologia?
Mi sono immedesimato, non ho provato a vivere da eremita ma mi piacerebbe provarci. Viviamo nell’era degli smartphone e dei social network e non posso farne a meno. La tecnologia oggi porta sempre più servizi ma evolve troppo in fretta, i nostri dispositivi diventano immediatamente vecchi. Da designer mi piacerebbe intervenire per rendere la tecnologia semplice e senza tempo, accessibile e meno soggetta ad usura. D’altronde perché se una poltrona di Le Corbusier rimane intatta per più di 100 anni, non può essere lo stesso per un computer o uno smartphone?
Il progetto è una proiezione del presente in un futuro non molto distante. Come si svilupperà in futuro il progetto?
Beata Solitudo è una visione progettuale e come tale vuole far riflettere sulle scelte di vita che si possono intraprendere in una società contemporanea. Questo rifugio è autoportante, ecologico e antisismico, tutte caratteristiche molto simili ad una yurta mongola. Per questo da qualche mese sono in contatto con alcune aziende produttrici di questa tipica architettura per realizzare il mio progetto. Già alcuni pastori in Abruzzo, reduci dal terremoto hanno scelto di vivere nelle yurte, ideali per i territori con alto rischio sismico.
Che ruolo ha la rappresentazione del tuo progetto? Quali sono stati i tuoi riferimenti in questo senso?
Racconto i miei progetti con dei collage digitali, mi danno la possibilità di entrare in una dimensione più immaginifica. Nel caso di Beata Solitudo, i collage mi hanno permesso di rappresentare la solitudine, il tempo che si ferma, la matericità del progetto e la contemporaneità per permettere a chi li guarda di immaginare. Non uso mai i render fotorealistici. Edward Hopper, Beniamino Servino, Fala Atelier, Formafantasma, OMA e Ignasi Monreal sono i miei riferimenti per la rappresentazione.
Questo progetto è nato come tesi di laurea alla Facoltà di Design del Politecnico di Milano. Francesco Faccin e Francesca Balena Arista sono stati i tuoi relatori. In che modo questi hanno avuto un’influenza su di te, e magari tu su di loro? Altri incontri significativi?
Francesco Faccin e Francesca Balena Arista – progettista l’uno, storica e curatrice l’altra – hanno delle competenze forti e complementari, per questo ho voluto fossero loro i miei relatori. Hanno avuto molta influenza su di me, mi hanno insegnato ad essere autonomo. Poi c’è Domitilla Dardi, che ho voluto conoscere quando ho letto il suo articolo su Domusweb intitolato “Primitivi Contemporanei”. Andrea Branzi e Michele De Lucchi invece sono stati miei professori. Ora sono assistente nei loro corsi alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Emanuele Magenta mi ha insegnato le logiche del mercato e la produzione industriale. Il Design Radicale, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Peter Zumthor e Enzo Mari sono i miei riferimenti progettuali.
Su quali progetti stai lavorando oggi?
Presenterò durante questa Milano Design Week il progetto “Solista”, un servomuto in legno di castagno nato dalla collaborazione con l’azienda siciliana Desine. Sto lavorando a una nuova collezione di oggetti in legno e basalto che presenterò prossimamente, oltre a una collezione di lampade per un editore. Alla Design Week esporrò alla galleria Subalterno1 nella mostra “Send Me The Future” a cura di Marcello Pirovano e Stefano Maffei.
Quali sono le linee di ricerca e i temi che stai sviluppando ora?
Mi piace fare ricerche e progetti che siano collegati. Spero possano provocare in me una reazione a catena utile a sviluppare nuovi scenari dove il filo conduttore è sempre l’uomo, chiedendomi chi era in passato, chi è oggi e come sarà quello del futuro, cercando di declinare anche il ruolo del designer. Queste sono alcune domande che sto cercando di fare a me stesso ora, elaborando delle visioni progettuali attraverso i miei collage.